Microstoria #004 (13-11-2018)

Il ronzino di Taddeus era nervoso. Quando avevano attraversato la prateria umida, guadando innumerevoli pozze di fango e essendo costantemente assediati da nugoli di mosche, l’animale aveva iniziato a frustare duramente l’aria con la coda e, di tanto in tanto, scuotere energicamente la testa e sbuffare con fare alterato. Anche Belle, la sua vecchia cavalla, si era mostrata infastidita dagli insetti, ma lo aveva dimostrato con la sua solita flemma agitando pigramente il capo e facendo tintinnare i finimenti consunti. 

Da quando si erano addentrati nel bosco il sole pareva essersi nascosto dietro gli alberi, faceva capolino raramente, squarciando le ombre con fasci di luce che proiettavano le aguzze ombre delle foglie pendule. L’autunno era ormai inoltrato, un tappeto di fogliame color bronzo li accoglieva sempre più nel ventre della foresta. Tutto taceva. I tonfi ritmati dei passi dei cavalli, intervallati dagli sbuffi di Amèth, che Taddeus cercava di calmare schioccando un poco la lingua e dandogli qualche colpetto sul collo bruno, erano gli unici rumori che li accompagnavano. Le mosche, però, se ne erano andate da un pezzo, constatò Parwa, guardandosi intorno trattenendo il respiro. 

Taddeus la chiamò, era diventato nervoso e i suoi occhi saettavano qua e là. Aveva qualcosa in comune con il suo ronzino, pensò Parwa incitando la vecchia Belle a rimettersi al passo.

– Stai diventando come Amèth. Se non ti calmi, lui diventerà ancora più agitato – disse la ragazza allungando il collo per indicare il cavallo: aveva le narici schiumose e il respiro pesante.

– Non mi piace qui – rispose lui e sputò per terra. 

Parwa sapeva che stata una pessima idea prendere quella via, ma ormai ed tardi per i ripensamenti. Di certo una discussione su chi aveva scelto quale strada e perché non sarebbe stata utile in quel momento. Non si sentiva al sicuro lì, in balia di quelle ombre. Spronò Belle nuovamente la quale riprese a camminare con il suo passo pesante.

– Muoviamoci, allora – disse infine portando istintivamente la mano alla fodera della sua giubba, dove conservava il suo coltello da caccia. 

Destiny

Scappava. Inciampava, si rialzava e riprendeva a correre. Aveva graffi sulla faccia e il respiro che gli rimbombava nelle orecchie. Il bosco era fitto e la luna prossima al tramonto; -Quando calerà,- pensava il ragazzo mentre scivolava nel fango e si aggrappava disperatamente ai rami contorti di un arbusto -potrò fermarmi, potrò riposare un po’.

Non aveva il coraggio di guardarsi alle spalle, non poteva, avrebbe perso tempo. Quel breve vantaggio era tutto quello che gli rimaneva. 

La pressione del sangue gli martellava le tempie, iniziò a percepire distintamente quella serenità data dal dissolversi di ogni preoccupazione se non quella della propria sopravvivenza. Le ombre del bosco e i suoi sussurri lo accoglievano progressivamente, -Abbandona la tua natura sgraziata di uomo!- pareva suggerirgli la foresta tramite il canto spettrale del barbagianni. 

La luna tramontò e l’oscurità si fece più densa. Il ragazzo schivò un ramo d’albero che pareva volesse afferrarlo. Poi rotolò sotto una felce che troneggiava con le sue fronde dalla fattura ancestrale. Si distese a terra. Appoggiò il capo su un groviglio di radici ammorbidite da una coltre di muschio. L’odore del terriccio bagnato gli punse le narici e lo indusse a regolare la respirazione. 

Non vi erano suoni ostili nell’aria, i suoi inseguitori avevano forse rinunciato? 

Di certo li avrebbe sentiti, mentre si aggiravano spavaldi cavalcando la certezza di catturarlo. Si sarebbero stancati presto di seguirlo, quando si è in tanti è difficile mantenere la concentrazione su un obiettivo se non si ottiene presto la gratificazione di un risultato; il ragazzo rimuginava tra sé e, nel frattempo, il suo respiro si era chetato. Ma non poteva certo addormentarsi, sarebbe stato sciocco dopo tutta la fatica che aveva fatto per distanziare i suoi inseguitori. Doveva riprendere la marcia lentamente, silenziosamente, come un serpente che scivola nei meandri della vegetazione più fitta. 

Era solo, da molto tempo ormai, non ricordava quanto. Era aggrappato alla sua vita nonostante non ne traesse alcun piacere. Odiava gli altri uomini. Era colpa loro se la sua anima si era inaridita, se le speranze che nutriva nel futuro si erano dissolte senza lasciare traccia. Suo padre adottivo diceva che l’uomo a volte ha bisogno di distruggere per aver la forza di ricostruire. 

Il ragazzo si levò dal suo nascondiglio con circospezione. Non riusciva a vedere bene, era troppo buio, ma la regolarità dei rumori del bosco lo tranquillizzò. Mancava poco al sorgere del sole ed era deciso a sfruttare quell’ultima ora per allontanarsi ulteriormente dal luogo dove aveva incontrato i suoi inseguitori. 

Avanzava in una sorta di trance, sgusciava tra i tronchi degli alberi e ne carezzava la corteccia, ora liscia, ora rugosa; guadò un ruscello tra i cui massi montava una schiuma maleodorante; si ricordò di quando, anni addietro, aveva visto una schiuma come quella macchiarsi di rosso, quando spararono in testa a Claire e lui era scappato gettandosi da una cascata sperando di morire al più presto. Si ricordava appena il volto di quella donna, doveva avere circa vent’anni, ma sembrava più vecchia. La vita era dura, sopratutto per una donna. Le donne tendevano a sobbarcarsi troppe responsabilità. Alcuni uomini le cacciavano per renderle schiave. 

-Meglio morta che schiava- gli aveva detto Claire un giorno. In questo il destino l’aveva accontentata, pensò il ragazzo mentre una fitta di dolore gli si annidava in gola, doveva smetterla di rivangare il passato: era solo, adesso, solo! -Meglio così-, si era ripetuto tante volte; non avrebbe più sofferto per la dipartita di qualcuno  né per la paura che lo abbandonasse o per la sofferenza che avrebbe potuto causare la sua morte a chi invece restava vivo. Un sorriso amaro increspò le labbra del ragazzo. Nessuno avrebbe sofferto per lui. Una tetra euforia gli percorse le membra e lo spinse ad aumentare il passo. 

Il tenue grigiore dell’alba lo colse mentre attraversava una larga strada sterrata. Il bosco scuro la cingeva da ambo i lati ed essa era vuota e silenziosa. Una brusca curva, più avanti, ne nascondeva il percorso a ovest, mentre a est proseguiva dritta, pareva inghiottita dalla foresta. Il ragazzo conosceva l’unica cosa che valesse la pena sapere circa le strade: erano pericolose, specialmente per i viaggiatori solitari. C’era un’odore di muschio e di conifere che lo fece inspirare a pieni polmoni. Il cinguettio di alcuni uccelli annunciava l’arrivo del sole. Il ragazzo si rituffò nel bosco ben contento di lasciarsi quella traccia di civiltà alle spalle. 

Non c’era alcun segno che indicasse che qualcuno frequentava quella foresta, non gruppi numerosi di persone per lo meno. Il ragazzo stava iniziando a tranquillizzarsi circa i suoi inseguitori, sapeva che gente come quella raramente si muove a piedi e, per questo motivo, ha solo una parziale conoscenza del territorio. La fame iniziava a mordere quando trovò alcuni cespugli di mirtilli. Erano pieni, profumati ed egli ne attinse con pazienza fino a riempirsi la bocca e il marsupio. Poi riprese il cammino, mangiucchiando un po’ e studiando ciò che aveva intorno. I raggi del sole raramente riuscivano a penetrare la vegetazione così fitta, alcune lame di luce tagliavano quella verde oscurità illuminando miriadi di piccoli insetti e un delicato pulviscolo che aleggiava lento. Il rumore di un corso d’acqua si faceva via via più definito. 

Una volpe stava bevendo da una cascatella cristallina che zampillava tra alcune rocce contornate da maestose felci. Il ragazzo la osservò, immobile, dietro il tronco di un abete. Poi l’animale con un balzo attraversò l’acqua e sparì. Il ragazzo prese il suo posto alla fonte, si dissetò chinandosi come un cane e poggiando le labbra sulla dolce corrente. Poi ne prese con le mani per sciacquarsi il viso, si ravviò i capelli all’indietro, si strofinò il collo sporco di sudore e terra. Tirò fuori il coltello e ne osservò la lama incrostata di sangue. Per un attimo gli balenò davanti agli occhi l’ultimo sguardo di uno dei suoi inseguitori, prima che quel coltello compisse il suo dovere. Forse era un ragazzo della sua età, forse era più giovane, difficile dirlo. Ormai non faceva più calcoli di quel tipo: essere amico o nemico era l’unica differenza che contasse sul serio. E gli amici erano sempre meno. 

Il ragazzo era stato cresciuto nel Deserto-tra-i-due-fiumi, un luogo inospitale battuto da bande di briganti che cambiavano spesso comandante ed erano sempre in lotta tra loro per il potere. Suo padre adottivo si chiamava Konrad e faceva parte della banda dei Topi di fiume. Era riuscito ad esserne il capo e a essere anche deposto conservando la vita e una posizione di rilievo. Konrad era un uomo scaltro e capace. La sua debolezza era l’aver perso un figlio e il volerne disperatamente un altro, ma dopo la morte della sua compagna non aveva avuto più desiderio di accoppiarsi con altre donne. Quando i Topi di fiume assaltarono una carovana dei Felini delle sabbie, Konrad trovò un neonato piangente dentro una cesta in uno dei carri. Non era figlio loro, probabilmente ci si sarebbero fatti una bella grigliata, quei maledetti Felini. Ad ogni modo Konrad credette che quel bambino gli fosse stato inviato dal Destino per dargli una seconda opportunità, cosa riservata davvero a pochi. 

Il ragazzo camminava nel bosco e sorrise tra sé al pensiero del suo vecchio. Gli aveva raccontato una miriade di volte la storia di come lo aveva trovato. Perfino quando tutto era mutato ed erano rimasti solo loro due a trascinarsi ai margini del fiume. E anche dopo che la pestilenza lo aveva colto succhiandogli la vita pian piano. 

-E così ti chiamai Destiny.- concludeva Konrad sorridendo in quel suo modo storto, come se il sorriso fosse alieno alla sua bocca.

-Destiny,- disse il ragazzo in un bisbiglio mentre il sole del meriggio gli faceva socchiudere gli occhi -Destiny…- ripetè schermandosi dalla luce con la mano. 

Un rumore ritmico lo scosse dal quel torpore di ricordi; si trattava di un tamburo? Non doveva essere lontano. 

Il ragazzo si fece largo tra fusti d’alberi giovani, lì dove il bosco aveva preso a diradarsi un po’. Alcuni arbusti appuntiti gli graffiarono le gambe mentre avanzava. Il rumore cresceva, si percepiva un certo vociare, erano voci allegre, qualcuno cantava. Il ragazzo si accigliò, quei suoni non gli erano familiari. Come una falena, però, ne era attratto e non riusciva a imporsi di cambiare direzione e riprendere la via della boscaglia. 

Il latrato di un cane si distinse tra quei rumori, un abbaio festoso, non la solita minaccia a cui egli era abituato. Poi lo vide, dietro una grossa quercia dal tronco panciuto e possente: il villaggio. 

Qualcuno, sulla via, gliene aveva parlato, di certi villaggi dentro la Foresta Grande. Molti erano stati distrutti dai predoni, altri trasformati in basi strategiche dalla Milizia d’Oltrefiume. Qualcuno esisteva ancora, gli avevano raccontato, ma era difficile trovarli. Nessuna strada conduceva lì, solo piccoli sentieri e gallerie sotterranee. Si erano fatti furbi gli abitanti dei villaggi, non volevano essere facili prede. 

Ora si poteva udire una piccola orchestra suonare, c’era addirittura qualcuno che ballava.

-Se stai così con la bocca aperta ti ci entrerà una mosca dentro!

Il ragazzo si destò come da un sogno e si voltò bruscamente, una ragazza gli stava sorridendo e poco dopo gli tese la mano.

-Io sono Grace e tu?

-Mi chiamo Destiny- rispose lui stringendole la mano più per non fare brutta figura che perché volesse farlo realmente. 

-E che nome è?- incalzò lei inclinando un poco il capo.

-Non lo so.

-Balliamo?

Prima che il ragazzo potesse rispondere si ritrovò dinnanzi all’orchestra a ballare con Grace. Lui non sapeva ballare, veniva trascinato da lei che pareva invece molto felice e a suo agio. 

-È il mio compleanno oggi.- gli bisbigliò ad un orecchio.

-Ah, sì…

-Sì, e tu sei il mio regalo.- continuò la ragazza con un risolino allegro.

Il ragazzo seguitò a danzare con lei, era quasi stordito dalla sua presenza, dai suoi occhi blu, dalla sua pelle profumata e da quel sorriso un po’ malizioso. Ma suo padre adottivo glielo aveva detto tante volte: -Quando pensi che sia troppo bello per essere vero, significa semplicemente che non è vero.

L’odore acre della carne alla brace lo riportò alla realtà come un pugno nello stomaco. Vide con la coda dell’occhio un torso umano girare sullo spiedo.

-Tutto bene, Destiny?- fece Grace sfiorandogli una guancia con le labbra. 

Scappava. Niente era cambiato, le sue gambe scattanti erano le sue uniche amiche. Avrebbe trovato qualcuno di cui fidarsi? 

Le mosche

Un forte ronzio accolse Lindberg in quella parte di bosco. C’era un odore acre di un’umidità malsana. Si sentiva un gocciolio provenire da chissà dove. Le foglie degli alberi erano scure e pesanti, pendevano mollemente nell’aria stantia. Il sole, fuori dal bosco e dalle sue ombre, era insopportabile, ma lì, dove era finito Lindberg a forza di girovagare in cerca di acqua, c’era qualcosa di sgradevole che gli faceva rimpiangere le precedenti sferzate di luce. Dove fossero gli altri non gli importava, erano testardi, erano pronti a morire di sete piuttosto che avventurarsi nella selva, ma lui no: lui voleva vivere!

Le cortecce erano impregnate di umidità, la gola secca di Lindberg agognava molecole d’acqua. Egli continuava a deglutire e a muoversi circospetto, mentre i suoi occhi saettavano famelici in cerca di una fonte. Sentiva, però, un certo disagio, qualcosa dentro di lui gli diceva che se avesse ceduto alla sete e attinto da quelle gocce invitanti che striavano le fronde cascanti attorno a lui, qualcosa sarebbe andato storto. Quel ronzio insistente lo faceva vacillare, era arrivato al punto di essersi dimenticato come fosse vivere senza quel rumore perforante che gli tediava l’udito. Gli parve che un gatto, un’ombra fugace, gli passasse davanti. Pensò, camminando malfermo, che stava perdendo la ragione. Avrebbe dovuto fidarsi degli occhi della guida Ukini, vibranti di paura: le superstizioni che tanto aveva deriso tra sé mentre si lasciava il gruppo alle spalle e si addentrava nel folto del bosco gli parvero sotto tutt’altra luce. Stava cominciando a crederci. Chi? Lui? Lindberg il pragmatico? Se glielo avessero detto qualche giorno prima, che il suo cervello avrebbe partorito simili pensieri, si sarebbe messo a ridere fino a doversi asciugare le lacrime.

La foresta era sempre più buia e impraticabile, il procedere era difficoltoso, scivoloso; certi fiori che adornavano alcune piante erano meravigliosi, ma con un’aspetto sinistro, fatale. Lindberg non si era mai sentito così smarrito prima di allora. Il suo viso liscio e austero era butterato dalle punture di piccolissime zanzare che infestavano l’aria. Voleva grattarsi, scorticarsi la pelle con le unghie, ma sapeva che non sarebbe servito a niente, anzi, avrebbe pericolosamente ulcerato la sua cute esponendola all’assalto di agenti esterni. Ad un tratto, due maestosi massi emersero dall’intrico dinnanzi a lui. Erano alti almeno cinque o sei metri, coperti di muschi, fronde, arbusti e piccoli fiori viola scuro. Tra loro si apriva un sentiero angusto e coperto da un odoroso pacciame. Lindberg procedeva incespicando, si appoggiò alle rocce che lo circondavano con le mani per non scivolare. Era concentrato, ogni passo era calibrato attentamente, non si azzardava a guardare più avanti di un suo singolo passo. Così ne sarebbe uscito, sì,  ce l’avrebbe fatta, avrebbe ritrovato gli altri e la strada per il campo.

Un urlo di donna esplose all’improvviso. Gridava un nome: “Bert! Bert! Puoi sentirmi, Bert?!”. Lindberg la riconobbe all’istante, non gli pareva vero: era Lysanna Giaromi, la biologa molecolare che faceva parte della sua spedizione. “Bert” era il nome di battesimo del dottor Ormel, il capo del loro gruppo, un uomo severo con un forte senso di responsabilità. Come gli parve dolce il suono stridulo della voce di quella donna!

Lindberg affrettò il passo, per quanto gli fosse possibile, trainato da un impulso che gli faceva sfavillare gli occhi di speranza. Il ronzio persisteva, ma lui non lo sentiva tanto era concentrato a localizzare la fonte di quelle grida sconnesse. Si poteva percepire dal tono della Giaromi una disperazione e un’isteria che non sapeva se sarebbe stato in grado di placare. Urtò violentemente un ramo basso e cadde con un grugnito al suolo. I rami neri, visti da quella prospettiva, parevano arti protesi ad afferrarlo. Un gatto ci camminava sopra con grazia. No, non era possibile, Lindberg si schiaffeggiò forte, le punture di zanzara bruciarono come se ci avesse gettato sopra dell’acido, ma almeno era tornato in sé aggrappandosi al dolore che provava. Poi la vide, la sagoma di quella donna che non aveva sopportato per un attimo dal momento che si erano conosciuti: Lysanna gli parve addirittura bella mentre con gli abiti fradici e un evidente pallore funereo si faceva strada tra un intrico di giunchi brandendo un machete con la forza della disperazione. Lindberg si schiarì la voce e la chiamò. Dalle labbra screpolate non uscì che un belato che lo fece vergognare di se stesso. Lei alzò gli occhi dal sentiero e, quando si posarono su di lui, arsero di un misto di collera e gioia.

Lindberg si sentiva profondamente in colpa. Lei gli aveva appena raccontato come erano andate le cose da quando lui “li aveva mollati come degli stronzi”, non erano andate affatto bene, una sequela di eventi drammatici che avevano portato alla morte e alla dispersione il resto della comitiva della Règia Esplorazione Solmeda, della quale anche lui, Fausto Lindberg, faceva parte insieme ad altri sette membri, più le due guide e tre portatori che si erano trascinati le loro costose attrezzature per le rilevazioni per mezzo pianeta. Aveva visto morire Sammy, il giovane geografo. Un mattino l’avevano trovato al suo posto di guardia, ma non era più lui: era solo un involucro di pelle pieno di mosche, migliaia di piccole mosche che si fregavano avidamente le zampette e ronzavano. Ronzavano così intensamente da far perdere la ragione.

Lysanna intervallava il suo racconto con smorfie orribili, singhiozzava e il suo corpo latteo e fradicio sussultava. Lindberg si chiese se avrebbe dovuto abbracciarla in quel frangente, si chiese anche se lei non lo avrebbe respinto, sembrava attribuirgli tutte le colpe delle tragedie che non smetteva di elencare. Irma Cotton, l’entomologa aliena, era sparita, dispersa nel nulla. Era negli insetti che avrebbero trovato delle risposte a come uscire da quell’inferno, aveva decretato quella donna la notte prima di sparire; la sua faccia ossuta con un naso prominente sul quale fremevano le narici ad ogni sua parola rifulgeva illuminata da una piccola frontale, la frontale del Dott. Ormel, che, come un serio professionista tutto d’un pezzo, asseriva col capo con aria grave.

“Sembrava in crisi mistica quella pazza della Cotton!” bisbigliò infine Lysanna con un mezzo sorriso che si trasformò presto in un singhiozzo. Ormai erano calate le tenebre, il ronzio sembrava essersi affievolito, o forse erano le loro orecchie che si erano abituate. Difficile dirlo. Era troppo umido per accendere un fuoco. La torcia era al limite con la batteria, sarebbe stato saggio accenderla solo in situazioni di emergenza e non per darsi un illusorio conforto. E poi la luce avrebbe attirato nugoli di insetti. Lindberg si passò la mano sulla faccia, sentiva le cunette pulsanti delle punture di insetto che gli invadevano le gote. La Giaromi, lungi dal desiderare il suo conforto, si era assopita con la schiena contro un tronco e il suo respiro era tenue e regolare. Lui rimase solo coi suoi pensieri, le vicende tragiche che lei gli aveva narrato lo avevano reso sgomento lì per lì, ma ora non sapeva, si sentiva distante come se fosse già morto e sepolto da un pezzo. Pensò poi al gatto che aveva intravisto nella foresta e gli venne da piangere. Pianse in silenzio e, mentre copiose lacrime sgorgavano nell’oscurità, si addormentò.

La mattina successiva, Lindberg si svegliò con dei forti dolori in tutto il corpo, non era mai stato peggio, pensò mentre cercava di stirarsi la schiena aggrappandosi ad un ramo d’albero. Lysanna dormiva ancora, in una posizione che lui giudicò innaturale e malsana. Si avvicinò a lei e la scosse un poco, dovevano andarsene di lì, e in fretta. Il capo della Giaromi ciondolò e le ricadde in avanti, sul petto. Fausto tentò di sollevarglielo, ma ben presto si rese conto che era un corpo senza vita quello che si sforzava di rianimare. Il suo viso pallido ora sembrava in pace; le sue palpebre si alzarono all’improvviso rilasciando centinaia di mosche che uscirono dalle cavità oculari in una nube nera e minacciosa.

Egli cadde all’indietro con un grido e annaspò con le gambe prima di riuscire ad alzarsi tanto la paura lo cingeva in una morsa fatale. Non mangiava da giorni, ma il suo corpo pareva infischiarsene di quella debolezza: l’adrenalina che gli montava dentro lo fece correre come un ossesso in una direzione qualsiasi, l’importante era che lo portasse via da lì.

Quando il fiato corto lo obbligò a fermarsi, si rese conto di aver agito senza la minima lucidità. Il machete avrebbe potuto essergli utile per farsi strada nella vegetazione, invece l’aveva lasciato accanto al corpo di Lysanna, dove non sarebbe servito a niente. Il ronzio si era attenuato, almeno così gli parve, mentre il suo udito captava un rumore di acqua, uno scroscio in lontananza. Lindberg camminò per un tempo a lui indefinibile verso quel suono che si faceva via via più chiaro, mentre l’aria si appesantiva: era calda, densa, fili di nebbia strisciavano tra i tronchi come grigi serpenti. Un gatto guizzò davanti a lui, fulmineo. Egli raccolse le ultime forze che aveva e balzò nella sua direzione… voleva prenderlo! La nebbia, che ormai si era fatta fitta, nascondeva alla vista di Lindberg un crepaccio profondissimo nel quale egli precipitò venendo inghiottito dall’oscurità. Non emise nemmeno un gemito mentre, incredulo, si inabissava nelle viscere di un pianeta sconosciuto.

L’acqua lo avvolse e lo fece roteare, era salata, era calda, nera come l’abisso dal quale sgorgava. Fausto Lindberg si preparò a morire, i suoi pensieri non si riuscivano a focalizzare su una cosa precisa, frammenti di frasi, di volti, di suoni affollavano la sua mente sgomenta. Diane era una soldatessa addetta alla sicurezza della loro missione, i suoi capelli castano chiaro erano così luminosi, così vivi, così… La sua voce gli ricordava il suono dell’oboe, una strana voce per una donna, lui la trovava così sensuale… L’acqua lo sbatteva senza pietà, ma il colpo di grazia non arrivava, non ancora. Si chiamava Leopold, il suo gatto, come aveva potuto dimenticarlo? Da bambino, sulla stazione spaziale di Vega IV, lo seguiva nei condotti di aerazione, era impossibile perdersi se si seguiva la scia di Leopold, la sua coda sinuosa disegnava volute nell’aria. Leopold… Possibile che?…

I bambini Ukini hanno pelle verde che poi diventa gialla dopo i primi quindici anni di età. Lindberg aprì gli occhi e si trovò sotto lo sguardo di una miriade di facce verdi dall’aria stupita e divertita. Il cielo indaco del pianeta Paruvian lo folgorò con la sua primordiale bellezza. I suoi piedi erano carezzati dall’acqua di un fiume tiepido.