Scappava. Inciampava, si rialzava e riprendeva a correre. Aveva graffi sulla faccia e il respiro che gli rimbombava nelle orecchie. Il bosco era fitto e la luna prossima al tramonto; -Quando calerà,- pensava il ragazzo mentre scivolava nel fango e si aggrappava disperatamente ai rami contorti di un arbusto -potrò fermarmi, potrò riposare un po’.
Non aveva il coraggio di guardarsi alle spalle, non poteva, avrebbe perso tempo. Quel breve vantaggio era tutto quello che gli rimaneva.
La pressione del sangue gli martellava le tempie, iniziò a percepire distintamente quella serenità data dal dissolversi di ogni preoccupazione se non quella della propria sopravvivenza. Le ombre del bosco e i suoi sussurri lo accoglievano progressivamente, -Abbandona la tua natura sgraziata di uomo!- pareva suggerirgli la foresta tramite il canto spettrale del barbagianni.
La luna tramontò e l’oscurità si fece più densa. Il ragazzo schivò un ramo d’albero che pareva volesse afferrarlo. Poi rotolò sotto una felce che troneggiava con le sue fronde dalla fattura ancestrale. Si distese a terra. Appoggiò il capo su un groviglio di radici ammorbidite da una coltre di muschio. L’odore del terriccio bagnato gli punse le narici e lo indusse a regolare la respirazione.
Non vi erano suoni ostili nell’aria, i suoi inseguitori avevano forse rinunciato?
Di certo li avrebbe sentiti, mentre si aggiravano spavaldi cavalcando la certezza di catturarlo. Si sarebbero stancati presto di seguirlo, quando si è in tanti è difficile mantenere la concentrazione su un obiettivo se non si ottiene presto la gratificazione di un risultato; il ragazzo rimuginava tra sé e, nel frattempo, il suo respiro si era chetato. Ma non poteva certo addormentarsi, sarebbe stato sciocco dopo tutta la fatica che aveva fatto per distanziare i suoi inseguitori. Doveva riprendere la marcia lentamente, silenziosamente, come un serpente che scivola nei meandri della vegetazione più fitta.
Era solo, da molto tempo ormai, non ricordava quanto. Era aggrappato alla sua vita nonostante non ne traesse alcun piacere. Odiava gli altri uomini. Era colpa loro se la sua anima si era inaridita, se le speranze che nutriva nel futuro si erano dissolte senza lasciare traccia. Suo padre adottivo diceva che l’uomo a volte ha bisogno di distruggere per aver la forza di ricostruire.
Il ragazzo si levò dal suo nascondiglio con circospezione. Non riusciva a vedere bene, era troppo buio, ma la regolarità dei rumori del bosco lo tranquillizzò. Mancava poco al sorgere del sole ed era deciso a sfruttare quell’ultima ora per allontanarsi ulteriormente dal luogo dove aveva incontrato i suoi inseguitori.
Avanzava in una sorta di trance, sgusciava tra i tronchi degli alberi e ne carezzava la corteccia, ora liscia, ora rugosa; guadò un ruscello tra i cui massi montava una schiuma maleodorante; si ricordò di quando, anni addietro, aveva visto una schiuma come quella macchiarsi di rosso, quando spararono in testa a Claire e lui era scappato gettandosi da una cascata sperando di morire al più presto. Si ricordava appena il volto di quella donna, doveva avere circa vent’anni, ma sembrava più vecchia. La vita era dura, sopratutto per una donna. Le donne tendevano a sobbarcarsi troppe responsabilità. Alcuni uomini le cacciavano per renderle schiave.
-Meglio morta che schiava- gli aveva detto Claire un giorno. In questo il destino l’aveva accontentata, pensò il ragazzo mentre una fitta di dolore gli si annidava in gola, doveva smetterla di rivangare il passato: era solo, adesso, solo! -Meglio così-, si era ripetuto tante volte; non avrebbe più sofferto per la dipartita di qualcuno né per la paura che lo abbandonasse o per la sofferenza che avrebbe potuto causare la sua morte a chi invece restava vivo. Un sorriso amaro increspò le labbra del ragazzo. Nessuno avrebbe sofferto per lui. Una tetra euforia gli percorse le membra e lo spinse ad aumentare il passo.
Il tenue grigiore dell’alba lo colse mentre attraversava una larga strada sterrata. Il bosco scuro la cingeva da ambo i lati ed essa era vuota e silenziosa. Una brusca curva, più avanti, ne nascondeva il percorso a ovest, mentre a est proseguiva dritta, pareva inghiottita dalla foresta. Il ragazzo conosceva l’unica cosa che valesse la pena sapere circa le strade: erano pericolose, specialmente per i viaggiatori solitari. C’era un’odore di muschio e di conifere che lo fece inspirare a pieni polmoni. Il cinguettio di alcuni uccelli annunciava l’arrivo del sole. Il ragazzo si rituffò nel bosco ben contento di lasciarsi quella traccia di civiltà alle spalle.
Non c’era alcun segno che indicasse che qualcuno frequentava quella foresta, non gruppi numerosi di persone per lo meno. Il ragazzo stava iniziando a tranquillizzarsi circa i suoi inseguitori, sapeva che gente come quella raramente si muove a piedi e, per questo motivo, ha solo una parziale conoscenza del territorio. La fame iniziava a mordere quando trovò alcuni cespugli di mirtilli. Erano pieni, profumati ed egli ne attinse con pazienza fino a riempirsi la bocca e il marsupio. Poi riprese il cammino, mangiucchiando un po’ e studiando ciò che aveva intorno. I raggi del sole raramente riuscivano a penetrare la vegetazione così fitta, alcune lame di luce tagliavano quella verde oscurità illuminando miriadi di piccoli insetti e un delicato pulviscolo che aleggiava lento. Il rumore di un corso d’acqua si faceva via via più definito.
Una volpe stava bevendo da una cascatella cristallina che zampillava tra alcune rocce contornate da maestose felci. Il ragazzo la osservò, immobile, dietro il tronco di un abete. Poi l’animale con un balzo attraversò l’acqua e sparì. Il ragazzo prese il suo posto alla fonte, si dissetò chinandosi come un cane e poggiando le labbra sulla dolce corrente. Poi ne prese con le mani per sciacquarsi il viso, si ravviò i capelli all’indietro, si strofinò il collo sporco di sudore e terra. Tirò fuori il coltello e ne osservò la lama incrostata di sangue. Per un attimo gli balenò davanti agli occhi l’ultimo sguardo di uno dei suoi inseguitori, prima che quel coltello compisse il suo dovere. Forse era un ragazzo della sua età, forse era più giovane, difficile dirlo. Ormai non faceva più calcoli di quel tipo: essere amico o nemico era l’unica differenza che contasse sul serio. E gli amici erano sempre meno.
Il ragazzo era stato cresciuto nel Deserto-tra-i-due-fiumi, un luogo inospitale battuto da bande di briganti che cambiavano spesso comandante ed erano sempre in lotta tra loro per il potere. Suo padre adottivo si chiamava Konrad e faceva parte della banda dei Topi di fiume. Era riuscito ad esserne il capo e a essere anche deposto conservando la vita e una posizione di rilievo. Konrad era un uomo scaltro e capace. La sua debolezza era l’aver perso un figlio e il volerne disperatamente un altro, ma dopo la morte della sua compagna non aveva avuto più desiderio di accoppiarsi con altre donne. Quando i Topi di fiume assaltarono una carovana dei Felini delle sabbie, Konrad trovò un neonato piangente dentro una cesta in uno dei carri. Non era figlio loro, probabilmente ci si sarebbero fatti una bella grigliata, quei maledetti Felini. Ad ogni modo Konrad credette che quel bambino gli fosse stato inviato dal Destino per dargli una seconda opportunità, cosa riservata davvero a pochi.
Il ragazzo camminava nel bosco e sorrise tra sé al pensiero del suo vecchio. Gli aveva raccontato una miriade di volte la storia di come lo aveva trovato. Perfino quando tutto era mutato ed erano rimasti solo loro due a trascinarsi ai margini del fiume. E anche dopo che la pestilenza lo aveva colto succhiandogli la vita pian piano.
-E così ti chiamai Destiny.- concludeva Konrad sorridendo in quel suo modo storto, come se il sorriso fosse alieno alla sua bocca.
-Destiny,- disse il ragazzo in un bisbiglio mentre il sole del meriggio gli faceva socchiudere gli occhi -Destiny…- ripetè schermandosi dalla luce con la mano.
Un rumore ritmico lo scosse dal quel torpore di ricordi; si trattava di un tamburo? Non doveva essere lontano.
Il ragazzo si fece largo tra fusti d’alberi giovani, lì dove il bosco aveva preso a diradarsi un po’. Alcuni arbusti appuntiti gli graffiarono le gambe mentre avanzava. Il rumore cresceva, si percepiva un certo vociare, erano voci allegre, qualcuno cantava. Il ragazzo si accigliò, quei suoni non gli erano familiari. Come una falena, però, ne era attratto e non riusciva a imporsi di cambiare direzione e riprendere la via della boscaglia.
Il latrato di un cane si distinse tra quei rumori, un abbaio festoso, non la solita minaccia a cui egli era abituato. Poi lo vide, dietro una grossa quercia dal tronco panciuto e possente: il villaggio.
Qualcuno, sulla via, gliene aveva parlato, di certi villaggi dentro la Foresta Grande. Molti erano stati distrutti dai predoni, altri trasformati in basi strategiche dalla Milizia d’Oltrefiume. Qualcuno esisteva ancora, gli avevano raccontato, ma era difficile trovarli. Nessuna strada conduceva lì, solo piccoli sentieri e gallerie sotterranee. Si erano fatti furbi gli abitanti dei villaggi, non volevano essere facili prede.
Ora si poteva udire una piccola orchestra suonare, c’era addirittura qualcuno che ballava.
-Se stai così con la bocca aperta ti ci entrerà una mosca dentro!
Il ragazzo si destò come da un sogno e si voltò bruscamente, una ragazza gli stava sorridendo e poco dopo gli tese la mano.
-Io sono Grace e tu?
-Mi chiamo Destiny- rispose lui stringendole la mano più per non fare brutta figura che perché volesse farlo realmente.
-E che nome è?- incalzò lei inclinando un poco il capo.
-Non lo so.
-Balliamo?
Prima che il ragazzo potesse rispondere si ritrovò dinnanzi all’orchestra a ballare con Grace. Lui non sapeva ballare, veniva trascinato da lei che pareva invece molto felice e a suo agio.
-È il mio compleanno oggi.- gli bisbigliò ad un orecchio.
-Ah, sì…
-Sì, e tu sei il mio regalo.- continuò la ragazza con un risolino allegro.
Il ragazzo seguitò a danzare con lei, era quasi stordito dalla sua presenza, dai suoi occhi blu, dalla sua pelle profumata e da quel sorriso un po’ malizioso. Ma suo padre adottivo glielo aveva detto tante volte: -Quando pensi che sia troppo bello per essere vero, significa semplicemente che non è vero.
L’odore acre della carne alla brace lo riportò alla realtà come un pugno nello stomaco. Vide con la coda dell’occhio un torso umano girare sullo spiedo.
-Tutto bene, Destiny?- fece Grace sfiorandogli una guancia con le labbra.
Scappava. Niente era cambiato, le sue gambe scattanti erano le sue uniche amiche. Avrebbe trovato qualcuno di cui fidarsi?