Il passaggio

Buongiorno a tutti, cari lettori e viaggiatori della vasta Rete!

Come vi sarete accorti, da qualche giorno non siamo più nel 2023, bensì nello sfavillante 2024 con le sue numerologiche promesse di equilibri ritrovati. Con l’anno nuovo i buoni propositi accantonati durante l’anno precedente ritornano come spettri inquieti presentando il conto dell’ennesima annata di procrastinazione, che cosa si può fare per dar loro un po’ di pace? Liste, schemi, wishhhlisstsss?! Ecco, io non ho una ricetta che valga per tutti…però, posso dire, in onestà, che bisognerebbe intanto non pensarci troppo e quando è il momento…agire! Per esempio io mi dicevo ripetutamente – mammamia, da quant’è che non scrivo un racconto!? Dovrei proprio scriverne uno! …Mettermi lì, tranquilla, seduta di fronte al computer, magari ascoltando un disco e chissà che cosa ne vien fuori…

Poi ieri, invece di pensare a ciò che dovrei o non dovrei, mi sono seduta davanti al computer ascoltando un disco di John Carter, una roba pazza, vi assicuro, meraviglioso! L’ho ascoltato su you tube, è una playlist con più dischi, registrati tra l’82 e il 90. Per trovarlo è bene digitare sulla barra di ricerca: “John Carter Roots and Folklore”. Ad ogni modo il racconto che qui segue è il risultato.

E salutando e ringraziando tutti coloro che per volontà o casualità sono capitati in questo piccolo spazio virtuale, vi auguro un felice anno nuovo e…una buona lettura!

Il passaggio

Quel pomeriggio decisi di tirare dritto e di non svoltare all’ultima curva. Abitavo in una zona alta della città. Sulla via del ritorno mi piaceva trascorrere qualche minuto al belvedere, quel panorama non mi stancava mai: la magnifica lastra d’argento del mare, i condomìni stretti gli uni agli altri come sull’orlo di un precipizio,  il vento forte e il sole occultato da una grossa coltre di nubi.

 – Sarà il vento – pensai, – è il vento che mi invita – e, con quella dolce ma ferma spinta alle mie spalle le mie gambe continuarono a camminare; in breve mi ritrovai all’inizio di una strada mattonata che, implacabile, mi chiedeva di iniziare un percorso ascensionale su vie sconosciute. 

Avevo freddo, la giacca primaverile che mi ostinavo a indossare non era adatta a quella stagione – l’inverno era alle porte -, così mi convinsi a imboccare la salita ritenendo che un po’ di moto mi avrebbe scaldato. L’angusta stradina si rivelò sempre più impervia man mano che proseguivo il cammino. In un attimo fui addirittura accaldato e respiravo a fatica: maledissi tutte le sigarette fumate fino ad allora, mi appoggiai a un muretto in pietra che mi lasciò un alone bianco sulla giacca, giocai con alcune foglie di parietaria, mi accesi l’ennesima sigaretta, tossii. Imprecai. Continuai la salita. 

Si stava facendo sera. Le ombre divennero più scure, osservavo i mattoni della pavimentazione scorrere sotto il passo rivelando forme irregolari, sbriciolature, cicche, cartacce, erbe selvatiche a ciuffi; le foglie secche dei lecci che contornavano il cammino frusciavano al vento e si sgretolavano sotto le mie scarpe. Il buio stava aumentando; la città, sempre più in basso, rifulgeva di luci calde e familiari, dinnanzi a me alcuni rami contorti pendevano sulla via, li schivai non troppo agilmente e il mio sguardo fu catturato dalla scalinata in pietra che mi attendeva. – Ormai posso solo andare avanti -, pensavo – poi magari cercherò un autobus o un’altra strada per tornare indietro – mi ripetevo quasi ossessivamente. Mi sentivo così lontano da casa, così fuori rotta, che non avrei nemmeno potuto dire se fossi inquieto o esaltato da quella repentina deviazione dalle mie abitudini. 

Le scale furono interminabili e immerse in un’oscurità blu. Gradini monolitici, cespugli invadenti che parevano divorare la fredda ringhiera in ferro, un pipistrello piroettò sopra la mia testa facendomi poggiare d’istinto una mano sui miei radi capelli. 

Di lì a poco intravidi una luce arancione artificiale che tagliava l’oscurità come un bisturi proiettando un cono di tepore; non che lì facesse più caldo, si trattava di un tepore metafisico. Mi imposi di non accendermi un’altra paglia.

Quel lampione illuminava una porzione di strada sulla quale non avevo mai transitato. Notai una vecchia fermata dell’autobus con una pensilina fatiscente e un bidone della spazzatura coperto di adesivi di varie fogge e colori; li osservai incuriosito mentre riprendevo fiato: ce n’erano alcuni, la maggior parte in effetti, pubblicitari, altri erano loghi di brand che non conoscevo, molti avevano numeri di telefono stampati in piccolo, mi colpì uno fosforescente a forma di disco volante con un alieno che ne usciva suonando una tuba – they’re among us – , diceva con una scritta geometrica anch’essa fosforescente. 

Decisi di fermarmi ad aspettare l’autobus, avrebbe potuto essere una lunga attesa, ma mi ero stancato di scarpinare a vuoto, era sera, ero infreddolito e iniziavo ad avere fame. Mi sedetti su una sporgenza di metallo gelida che un tempo doveva essere stata un sedile. Fantasticai su ciò che avrei fatto una volta tornato a casa, immaginai le mie quattro mura, nient’altro che un appartamentino da scapolo e poi Kida, la gattina siamese, che mi avrebbe guardato con un certo rimprovero nello sguardo: – ti sembra l’ora di tornare a casa? Qui c’è qualcuno che ti aspetta per cena! – mi immaginai i suoi severi occhioni di topazio e sorrisi tra me. Mi accesi una sigaretta e mi strinsi nella giacca che avevo prontamente abbottonato fin sotto la gola. 

La cicca era quasi terminata e mi accingevo a spegnerla, quando la mia attenzione fu catturata da un rumore ritmico che poteva assomigliare al tossicchiare di un vecchio motore. Da dietro la curva apparvero un paio di fari, tenui e traballanti. Non saprei spiegarmi il perché lo feci, ma quasi mi lanciai in mezzo alla strada per fermare il conduttore di quel veicolo. Egli mi si accostò. Guidava un’apecar che aveva visto molte primavere. Anche il conducente doveva arverne viste molte, come me del resto. Era un ometto secco e dalla pelle color cuoio con un berretto blu scuro calato quasi fin sugli occhi che brillavano di una certa giocosità. – Buonasera, – dissi, e per un momento non seppi come proseguire. – Buonasera a lei, tira un bel vento da queste parti, eh? – ribattè lui con quegli occhi birichini che sfavillavano tra le sue palpebre rugose. – Ecco, sì, un bel vento… – feci io, – Senta, ma dove si va per questa strada? Temo di essermi perso. – Ha ben voglia ad aspettare la corriera – mi rispose lui indicando la fermata – cinquant’anni che vivo qui e non l’ho mai vista passare una volta! Nemmeno una, le dico! -; mi voltai anch’io in direzione della fermata: in effetti non prometteva niente di buono, poi, fulmineo, un ratto si arrampicò sopra la pensilina, discendendo dalla parte opposta, sul tronco di un albero. 

– Se vuole, le posso dare un passaggio qui sopra, ma dovrà viaggiare nel cassone sul retro, qui dentro stiamo già stretti io e la mia Berta. Che dice, vuol montar su? 

Solo in quel momento mi resi conto che il vegliardo divideva l’angusto abitacolo con un pastore tedesco che avrà avuto la sua stessa età. Stava seduta immobile sul sedile del passeggero e credo non le si fosse mosso un baffo per tutto il nostro incontro. 

– D’accordo. – dissi infine, quasi senza pensare. – Allora, in carrozza! – gioì divertito il vecchio incalzandomi a gesti – Ce la fa a salire? …Ecco, sì, perfetto ora non le resta che mettere su l’altra gamba!

Partimmo. Mi ranicchiai dalla parte opposta di una grossa valigia nera. L’aria era frizzante e il vento impetuoso mi scompigliò i capelli, mi reggevo con le mani al gelido metallo e pregai che la nostra traversata avesse presto una fine. La strada era deserta, ogni tanto un lampione gettava le sue luci e le sue ombre, grossi alberi si sporgevano oltre gli sgangherati guardrail. Mi appoggiai con la schiena all’abitacolo e, alzato lo sguardo, mi beai della volta celeste che si intravedeva tra le scure fronde. Mi persi con la mente in quegli istanti, aggrappandomi ai lumini solitari degli astri, finché l’apecar si fermò, eravamo ritornati tra le case. Il mio “cocchiere” scese e mi tese la mano – Ecco, venga, l’aiuto a scendere,- disse allegro, – ora – continuò indicandomi una scalinata illuminata da una luce quasi accecante – non le resta che scendere giù da quelle scale, vedrà che ci si ritroverà -. 

Ringraziai goffamente riassettandomi la giacca, mi presentai, ci stringemmo la mano. – Spero che la mia tuba non le abbia arrecato fastidio durante il viaggio, è uno strumento ingombrante, lo riconosco… – asserì poi indicando con un cenno del capo la grossa valigia nera con cui avevo diviso lo spazio durante il tragitto. – Ma no, s’immagini, anzi, ancora grazie del passaggio – dissi infine e, dopo un ultimo cenno di saluto, mi incamminai verso casa.