Andiamo “al ciàina”

Cioè: “Andiamo al ristorante cinese.” Ci pensavo proprio stamattina al ristorante cinese, nel senso di “cosa che esiste”, che fa parte della mia realtà. Una delle tipologie di ristoranti che ho frequentato di più, forse. I prezzi modici hanno certamente inciso sul perpetrarsi di queste mie esperienze. Quando ero bambina i miei mi ci portarono qualche volta, ci andavano coi loro amici, coi miei zii, e si immergevano in quell’esotismo galoppante. Io ero decisamente più tradizionalista. Mangiavo solo riso bianco lottando disperatamente con le bacchette per acchiapparlo. Poi desistevo ripiegando su un caratteristico cucchiaio di porcellana; quei cucchiai mi lasciavano sgomenta, non si potevano mettere in bocca come i “nostri” cucchiai, erano troppo grossi, troppo squadrati.

Il film d’animazione “Mulan” ha segnato un mio progressivo avvicinamento alla cultura orientale. Una certa curiosità gastronomica anche. Per un periodo ho fatto colazione con tè verde e riso bianco condito con salsa di soja. Ho imparato a usare le bacchette.

Poi all’epoca della scuola media, quando facevo “i moduli” e uscivo all’una, mi incontravo con mia madre per pranzare insieme; lei faceva il part-time. Spesso andavamo a casa, a volte andavamo al ristorante cinese “Da Chang”. C’era un’ipnotica musica cinese a basso volume, quadri con soggetti campestri cinesi, ventagli giganteschi appesi alle pareti sfoggiavano fiori e montagne spennellati con maestria. Le pareti di quel luogo parevano di plastica. Ma c’era una pace, un clima così scenografico e avvolgente che non si poteva fare a meno di fondersi con esso. Gran parte delle cameriere non parlava italiano e capitava, quando magari volevi ordinare qualcos’altro, di attirare l’attenzione di una di loro con un: “Mi scusi, signorina…” L’interpellata di solito  faceva un’espressione smarrita e scappava letteralmente via per mandare in avanscoperta un/una collega che avesse più dimestichezza con la nostra lingua. Poi c’era pure un cameriere figo, anche secondo mia madre. Eravamo sempre felici quando veniva a prendere le ordinazioni. Mi ricordo che prendevo sempre le alghe fritte, c’era qualcosa, nella loro consistenza evanescente, che mi incantava e mi spingeva a consumarle come per volerne carpire il segreto. Poi la zuppa di pinne di pescecane, con la sua consistenza vischiosa e il suo nome degno di comparire in una delle avventure di Indiana Jones. Il tè cinese al gelsomino è sempre stato (ed è tutt’ora) un must.

“Il sushi” era ancora percepito come stranezza al limite della commestibilità a quel tempo (fine degli anni ’90). Io lo provai relativamente presto perché, sempre durante il periodo della scuola media, ero letteralmente “impallata” con il Giappone. I manga, il cinema (era uscito “L’estate di Kikujiro” di Takeshi Kitano che mi aveva incantata), i samurai, Final Fantasy,  il fascino di un luogo così distante geograficamente e culturalmente mi rapirono infiammando la mia immaginazione. Mi ricordo che fu il giorno del compleanno di mio padre che, per festeggiarlo, andammo io e lui a cena nel primo “sushi” aperto a Genova, al Porto Antico: l’ “Irifune Sushi-Bar”, che ora non c’è manco più. Ero emozionatissima, mi misi la maglietta rossa di Dragon Ball e la giacca di jeans. Ebbi qualche problema con il wasabi. I prezzi NON avevano nulla a che vedere con quelli del ristorante cinese.

Negli anni successivi, durante la scuola superiore e dopo, è capitato spesso di andare al ristorante cinese. Complice il mio essere perennemente squattrinata, ma anche quella “cinesità” che mi metteva profondamente a mio agio. Quella riservatezza e cortesia che erano il marchio di fabbrica di ciascuno di quei luoghi. Potrei dire che in quel periodo, tra una cosa e l’altra, andai spesso ad un ristorante Sotto Ripa che si chiamava “Ta-Chung”. Andavo con alcuni amici e amiche della scuola e ci sedevamo ad un ampio tavolo rotondo che aveva al centro un piatto girevole molto comodo per servirsi delle più disparate pietanze. Ci andammo anche il giorno della laurea di Hell a prendere un po’ di roba d’asporto; io, Hell, Lou e i nostri cani Scacchi e Rumba ci ritrovammo poi a mangiare sedute per terra al Porto Antico bevendo birrette e passandoci le salsine dove intingere involtini e ravioli al vapore.

Poi c’era il ristorante in cima a via Venti, “Da Chen”. Lì ci andai con mia zia Jean e Amir un giorno a pranzo, poi con una collega con la quale eravamo rimaste in buoni rapporti, poi con Hell, la mia amica cara. In via Venti c’era pure un altro  luogo degno di nota, un cinese che sembrava la scenografia di un film di David Lynch: il ristorante cinese “Parigi”. Era il mio preferito, adoravo quell’atmosfera. Ma non ci sono andata molte volte, ad ogni modo. C’era un’austera tappezzeria blu notte, un’illuminazione soffusa e delle enormi lampade stazionavano su ogni tavolo, erano così basse che si rischiava di batterci la fronte contro se ci si sporgeva troppo in avanti. Era il luogo perfetto per andare a cena. Tra le altre cose quel ristorante non si trovava al livello della strada, era al primo piano di un antico palazzo, le sue finestre si intravedevano dalla strada che faceva angolo, via Ceccardi e, anche guardandolo dall’esterno, quel posto per me era pieno di poesia.

 

04. Vecchie abitudini, nuovo Sé

La slitta trainata dai cani giunse ad un villaggio le cui basse abitazioni erano coperte da una spessa coltre di neve. L’uomo che la conduceva gridava secchi comandi ai suoi cani con una voce roca che si perdeva nel silenzio della notte innevata; gli animali ubbidivano come un unico, possente essere. I pattini della slitta sibilavano e Jay, legato strettamente al corpo di essa, era semiaddormentato, cullato da quel suono ipnotico. Improvvisamente, appena dopo l’ennesimo urlo del conduttore, i cani sterzarono e si infilarono in uno stretto viottolo che, contornato da due muri di cinta, portava al cortile di un edificio basso e lungo. A prima vista pareva un ambulatorio o una scuola. Una donna era ferma in piedi sul porticato di cemento, probabilmente li stava aspettando. Il suo volto era imperscrutabile, freddo e geometrico, i suoi lineamenti sembravano disegnati col righello. La slitta era ferma ormai. Jay Fox Middlethorne si guardò intorno muovendo a fatica la testa pesante, si sentiva stanchissimo, privo di forze. Il respiro caldo dei cani produceva delle ritmiche nuvolette di vapore che apparivano intermittenti, rischiarate dalla luce che illuminava il porticato, dove quell’austera donna non aveva mutato posizione.

“Ne ho trovato un altro, miss Adelby!” gracchiò il conduttore rivolto alla donna, poi iniziò a trafficare con le cinghie che assicuravano Jay alla slitta. Miss Adelby sembrava annoiata, sbuffò e scribacchiò qualcosa su un taccuino che aveva in tasca. Portava un rigido tailleur militare color cachi con sopra una pesante giacca foderata di pelliccia sintetica. “Pensavamo che la tormenta vi avesse inghiottito, signor Porlen.” disse lei infine sospirando. “Naaa,” fece lui gonfiandosi leggermente “questa è poca roba, signora. Potremmo partire seduta stante per un’altra ricognizione, io e la mia muta”; la donna accennò un glaciale sorriso, poi disse: “E il ragazzo? Può camminare?”

“È conciato male questo qui, rischia l’ipotermia.” rispose Porlen caricandosi l’esile corpo di Jay su una spalla, come un sacco di patate, dirigendosi nell’edificio attraversando il porticato illuminato da freddi neon. Due giovani donne, forse infermiere, gli vennero incontro aiutandolo a deporre il bambino su una branda ospedaliera le cui lenzuola puzzavano di disinfettante ed erano in certi punti macchiate di sangue che, nonostante fosse stato lavato, non era venuto via. Jay si sentì sprofondare in quella morbidezza avvolgente, su quel materasso sfondato che aveva accompagnato alla morte una moltitudine di soldati; non si accorse nemmeno di quando gli bucarono il braccio per infilargli una flebo di vitamine. Sentiva un vociare confuso e ombre indistinte che si muovevano nella stanza, poi si addormentò.

Il signor Porlen uscì sul porticato e tirò una boccata d’aria fresca a pieni polmoni, detestava l’odore degli ambulatori: puzzavano di malattia, di infezione, di morte, pensava. Miss Adelby stava fumando una sigaretta, una di quelle lunghe e strette. Una neve sottile aveva ripreso a cadere, turbinando freneticamente. Nonostante quello che aveva sostenuto prima con spavalderia, l’uomo pensò che la cosa migliore da fare fosse far riposare i cani e dargli una ciotola di meritata zuppa. Anche lui aveva fame, del resto; meditò di fare un salto alla mensa per vedere se fosse avanzato qualcosa dalla cena di quei ragazzini. Non ci sperava nemmeno troppo, mangiavano come cavallette, quelli.

“Ottimo lavoro, signor Porlen.” echeggiò alle sue spalle la voce della Adelby, mentre conduceva i cani al ricovero delle bestie, nella vecchia palestra. “Grazie, signora.” tagliò corto lui sparendo nell’oscurità punteggiata di bianchi fiocchi ballerini.

Quando Jay si svegliò doveva essere l’alba o poco prima. Spalancò i grandi occhi color del ghiaccio cerchiati di nero e si ritrovò a fissare il grigio soffitto della camerata dove era stato portato. Le prime luci penetravano da alcune anguste finestre situate molto in alto e fornite di pesanti sbarre dalle quali si stiracchiavano delle lunghe ombre oblique. C’erano altri letti oltre al suo, nella stanza, e anche altri bambini. Jay si chiese se non fosse capitato nuovamente in un orfanotrofio, quel pensiero gli piombò addosso avvilendolo profondamente. Poi pensò a quell’uomo: Uro Moggie. Era morto per davvero? Quello che era certo era che anche il vecchio Jay Fox Middlethorne era morto con lui. Era cambiato. Qualcosa di nuovo era germogliato dentro di lui, qualcosa di vivo. Lo doveva forse a quel giovane uomo che avevano abbandonato a ricoprirsi di neve sul ciglio di una strada? Jay pensava di sì, ne era convinto fermamente. E così meditando si rese conto di avere un obiettivo: tornare da Uro, ovunque egli si trovasse. Doveva sincerarsi di persona della sua dipartita. Altrimenti sarebbe stato un inutile vigliacco che meritava di marcire ai lavori forzati come tutti quei ragazzini che si aggiravano come spettri nelle miniere di Salburn.

Il suono di un campanaccio lo fece sussultare. Una donna, alta e grassa, entrò con passo pesante nella camerata, scuotendo energicamente una grossa campana da bestiame. Il suo volto esprimeva una cupa soddisfazione per quello che stava facendo. I dormienti si svegliarono bruscamente e scattarono in piedi a fianco del letto e iniziarono a rassettarlo freneticamente, le facce pallide e smunte e gli occhi privi d’espressione parevano appartenere a un’orda di catatonici. Jay li imitò alla svelta percependo il glaciale contatto dei suoi piedi nudi sul pavimento. La donna abbaiò un comando e i ragazzini si bloccarono sull’attenti. Indossavano tutti un grigio pigiama con il colletto bianco e dei piccoli bottoni avorio. Al segnale successivo iniziarono a spogliarsi fino a rimanere con addosso la sola biancheria: faceva un freddo del diavolo, pensò Jay, il cui sguardo andò immediatamente alla sedia metallica accanto al suo letto. Vi erano adagiati dei vestiti, perfettamente piegati e, sotto di essa, un paio di scarponcini di pelle che somigliavano vagamente a quelli che indossava miss Coney giorni addietro. I bambini si vestirono in fretta e presto anche Fox fu pronto a seguire i compagni che, in fila indiana, si apprestavano ad uscire dalla camerata. Quei vestiti erano consunti e pungevano, i pantaloni erano troppo corti per lui, che era alto per la sua età, ma si guardò bene dal grattarsi o dal manifestare una lamentela qualsiasi, aveva capito perfettamente che nessuno lo avrebbe  ascoltato.

I ragazzini giunsero, marciando a testa bassa, ad una stanza di fattura simile a quella del loro dormitorio, solo molto più grande: la mensa. C’erano lunghe file di tavoli e sedie. Alcuni erano già seduti e mangiavano avidamente da grosse tazze. Jay e quelli della sua camerata si misero in fila per ricevere la loro tazza e il cucchiaio. Alcune donne dall’aspetto severo, che, come miss Adelby, indossavano tailleur militari, sovrintendevano alla situazione. Impugnavano dei lucidi frustini per cavalli. Avevano tutte i capelli raccolti in una stretta crocchia sulla nuca e un imperscrutabile volto dal quale non traspariva un accenno di umanità. C’erano altre donne, poi: servivano una brodaglia beige pescandola con grossi mestoli da pentoloni fumanti. Esse erano abbigliate diversamente: indossavano delle retine nere sulla testa e un grosso grembiule azzurrino, dal quale spuntavano le maniche grigie e la lunga gonna di un ampio vestito dal tessuto pesante e grezzo. Jay guardava la nuca rasata del ragazzino dinnanzi a lui, dalla sommità del suo capo spuntavano ciuffi di capelli rossicci. “Chissà chi è costui?” si domandò, mentre la fila avanzava lentamente. Poi il suo sguardo si posò furtivamente sulle teste dei presenti e notò che tutti i bambini erano rapati allo stesso modo. Istintivamente si portò le mani scheletriche alla nuca e scoprì che avevano rasato anche lui.

“Ehi carino, mani lungo i fianchi!” sbraitò una donna non distante da lui. Jay si ricompose all’istante, chinando la testa. “Così si ragiona.” continuò lei. Fox percepì qualcosa di beffardo nel suo tono: gli montò una collera rovente che gli infiammò le orecchie e gli strinse la gola. Poco dopo teneva in mano una ciotola bianca di ceramica dai bordi venati e un cucchiaio recante delle poco invitanti macchie di unto; la lunga fila davanti alle pentole era quasi terminata. La brodaglia fluì nella ciotola che Jay protendeva in direzione di colei che, instancabilmente, ne riempiva una dopo l’altra. Il volto di quella donna era solcato da alcune rughe e la sua bianca pelle tremolava come un budino ad ogni suo movimento. Aveva occhi blu piegati all’ingiù che le conferivano un espressione sconsolata, da Madonna. La sua bocca sottile, malamente ispessita dal trucco, era rivolta anch’essa verso il basso. Jay pensò che la sua faccia somigliava a quella di un vecchio pesce infelice; poi egli si diresse a sedere accanto a due ragazzini smunti che trangugiavano avidamente la loro razione intingendovi alcuni tozzi di pane raffermo. Nessuno parlava, nessuno alzava la testa, nessuno guardava altrove. Tutti tenevano la testa china sulla loro tazza o sul mucchietto di pane secco, che veniva rimpolpato non appena si esauriva, rovesciandolo da dei grossi sacchi di carta che puzzavano di muffa. Jay imitava gli altri, ma percepiva nel suo intimo che qualcosa non andava, a prescindere dall’idea che si era fatto della situazione che stava vivendo. Sapeva bene cosa significasse vivere con degli altri bambini: dormire nella camerata, essere svegliati all’alba, mangiare in mensa tutti insieme; essere obbligati a nutrirsi di qualcosa di squallido, di rancido. Ma quel luogo era diverso. Non c’erano cameratismo, occhiate furtive, né l’ombra di un qualsivoglia dissenso: quel luogo era strano, spettrale. Gli unici rumori erano lo sciabordio di quel liquido caldo che scivolava giù per le avide gole dei presenti; i loro cucchiai che urtavano contro il materiale della tazza; il pane vuotato al centro del tavolo. Fugaci manine pallide scattavano procacciandosi quell’alimento secco e, altrettanto velocemente, lo portavano alla bocca ingurgitandolo dopo rapide masticate da criceto. Il contenuto della tazza di Jay emanava un vago odore di caffè sintetico. Il suo calore gli scaldava le mani, che cingevano il contenitore, ed egli rimase così, assorto, nell’atto di assorbirne il tepore. Jay fissò a lungo la superficie del liquido beige. Da quanto tempo non mangiava? Non lo ricordava. Poi si decise e portò la tazza alle labbra. Un forte dolore alla caviglia lo distolse dal suo intento. Il bambino davanti a lui gli aveva appena dato un calcio!