Ipertreno

Con una mano stringeva l’apertura della borsa. Il paesaggio scorreva fuori dal finestrino, ma lei non lo guardava. Sapeva che si trattava di un filmato ultradefinito proiettato per rilassare i passeggeri dell’ipertreno e non amava sottoporsi a quel tipo di menzogne. 

Una famiglia occupava il gruppo di sedili accanto. Il figlio maggiore avrà avuto sì e no quindici anni. Di certo non aveva memoria di ciò che veniva proiettato nel filmato, era nato già lì; forse quelli non erano nemmeno i suoi genitori, magari era uno di quei bambini delle “gestazioni meccaniche sperimentali” che venivano affidati ai geneticamente deficitari. Pareva stesse dormendo, ma era semplicemente assorto nei suoi pensieri; – uccidere il padre -, avrebbe detto qualcuno, ma non erano così chiari, erano un labirinto di passaggi che l’avrebbero condotto a un’emancipazione. 

“Che pianeta, Lanor!”. Lo diceva la pubblicità sulle brochure che venivano scaricate a chili all’ingresso dei condomìni sovraffollati nella vecchia Terra, agganciavano le speranze e le riplasmavano in forma di viaggio interstellare. 

Una donna avanti con l’età si compiaceva con sé stessa per aver compiuto quel passo, ma intanto il suo chiodo fisso era ancora quello di ambientarsi. Il marito aveva ottenuto un posto di guardiano nel museo di Archeologia Lunare. Lei aspirava a un impiego di governante in una famiglia con una posizione. 

Poco più in là una ragazza si raccontava bugie per tirare avanti. L’altoparlante annunciò la stazione successiva e lei si scosse aggrappandosi al suo modesto bagaglio; stavano arrivando a “Le Miniere”. La voce metallica continuò elencando le bellezze minerali di Lanor. Gli omicidi, così continuava il messaggio, erano diminuiti nell’ultimo anno del 100%. I suicidi invece erano in aumento vertiginoso, ma questo dato non veniva menzionato. La ragazza era stata esonerata dalla procreazione e la sera prima aveva brindato alla notizia con alcuni coetanei che aveva incontrato ai colloqui conoscitivi che organizzava l’anagrafe, sezione “Nuovi Cittadini”. In particolare una sua conoscente le aveva detto che “doveva ritenersi fortunata” dato che lei era obbligata a “sentirsi fortunata” per tutte quelle gestazioni che le squassavano il ventre. – Vedi -, le diceva in tono confidenziale indicandosi la frangetta brizzolata, – prima i miei capelli erano tutti neri e tra un mese ho un’altra inseminazione -; solo, era difficile accettare una vita senza obiettivi biologici, pensava la ragazza con lo sguardo incollato ai finestrini. Il filmato era ricominciato dall’inizio. 

L’uomo anziano che era salito alla fermata “Vecchio Spazioporto” era di certo uno dei primi ad essere approdati su Lanor. Ricordava il pianeta natio meglio di altri; la sua memoria era però edulcorata dal ricordo di quella che pensava fosse stata un’infanzia felice: la piscina di quartiere, le canzoni sulla navetta che portava lui e altri ragazzi alla mensa sopraelevata dove poteva vedere lei, la ragazza asiatica che invece non era partita. All’epoca era un giovanotto robusto con la fronte riccioluta e gli occhi umidi. Il nome: l’unica informazione che fosse mai riuscito a carpirle. Lo conservava ancora dentro di sé, dove erano entrambi immortali e sospesi nel tempo. 

Il capolinea si avvicinava e l’ipertreno si svuotava.

Due uomini malvestiti parlottavano tra loro. Erano due manutentori, avevano le mani e i visi sporchi di grasso sintetico. Uno diceva: – se fossi stato in te…-, e l’altro faceva: – se fossi vent’anni più giovane, forse… -, – Non potrei sopportarlo -,  – ma no, ma no… Ci si abitua a tutto… -. Si era iscritto al programma di “mutilazione volontaria”, ne aveva abbastanza di quella vita, si sarebbe trasferito in un Resort per mutilati. 

Sui finestrini iniziarono a scorrere alcune réclame. 

Qualcuno già ponderava di trasferirsi su un altro pianeta.

Handy

Alla radio parlavano dell’arte e della creatività. Era paragonabile, la creatività artistica, a quella scientifica? Dicevano di sì, lo era senza dubbio. -Del resto i creativi amano interagire tra loro…- concludeva il neurochirurgo per sostenere la sua tesi. Poi il discorso passò a ciò che concerne la creatività animale. Alcuni scimpanzé avevano dipinto dei quadri anni addietro. 

-Si poteva notare un gusto estetico, un senso della finitezza dell’opera…

Misi su l’acqua per la pasta tentando di immaginarmi uno scimpanzé-pittore, con il camice e il basco e un certo piglio di impenetrabile concentrazione. 

-Gli animali hanno un senso artistico?- domandò il conduttore del programma radiofonico.

-Beh, lasci che le racconti questo aneddoto: un collega giapponese compì un esperimento molto particolare: mostrò alcuni disegni di bambini a un gruppo di volontari che dovevano esaminarli. Avrebbero dovuto fare una semplice selezione tra “belli” e “brutti”. Dopo che essi ebbero operato la loro scelta il dottor Tanue addestrò dei piccioni a riconoscere la differenza tra bello e brutto sottoponendoli, successivamente, allo stesso esperimento. Essi diedero gli stessi risultati dei loro “colleghi” umani.- 

Mi stavo domandando in che modo il dottor Tanue, stimato neurologo e comportamentista, avesse addestrato dei piccioni a considerare bella o brutta una cosa, quando squillò il telefono, o meglio, vibrò lo smartphone. 

Era un numero sconosciuto, il prefisso era quello di Milano, da giorni ormai tentavano di contattarmi. Io buttavo giù la chiamata regolarmente. -Dannati call center- pensavo. 

Quel giorno però un pensiero mi balenò nella mente: -Ma si tratta davvero di un call center? E se fosse  qualcosa di importante? Sono molti giorni che tentano di contattarmi, in effetti…- 

-Buongiorno, parlo con il signor Giuseppe Esposito?

La voce era quella di una giovane donna, sembrava allegra o fingeva di esserlo. Ma la verità era che io non avevo idea di chi fosse il Giuseppe Esposito di cui parlava.

-Sì, sono io, mi dica- risposi un momento dopo stupendomi al tempo stesso delle mie parole.

-Signor Esposito, la chiamo per informarla che il suo nome è stato selezionato dalla nostra agenzia per partecipare attivamente a un progetto sponsorizzato dalla Lupery-Bertman, azienda leader nella produzione di prodotti farmaceutici per uso veterinario.

-Un progetto di che tipo?

-Ah, spiacente, io non ho di certo i dettagli, di questo verrà informato non appena avrà aderito alla proposta…

-Capisco. E io come dovrei fare per…

-Innanzitutto lei deve sapere che il suo ruolo nel progetto verrà adeguatamente remunerato.

-Beh, mi sembra giusto, ma…

-Le inoltro subito la scheda di partecipazione, mi dà il suo consenso?

-Sì, ma…

-Benissimo, signor Esposito. Le ricordo di compilarla in toto. Non lasci alcuno spazio bianco. Altrimenti la scheda verrà invalidata.

-Me la invierà tramite e-mail?

-No, la spedizione sarà tramite posta ordinaria al suo indirizzo di… Dunque, Via Michele Spistri 17/5?

-Sì, è esatto…- questa volta il mio tono di voce era incerto, l’indirizzo era quello giusto, era il mio. La cosa stava cominciando a divertirmi sempre meno.

Passarono alcune settimane, avevo molte cose da fare in quel periodo, frequentavo l’università di Lettere e avevo un esame molto duro da preparare. Mentre affrontavo la poetica del Dolce Stil Novo sepolto nelle viscere della biblioteca pubblica la mia mente non poteva che trovarsi più lontana dal pensiero della telefonata di qualche settimana prima. 

Il pomeriggio di venerdì terminai la riscrittura degli appunti e ciò mi mise di buon umore. Decisi di concedermi una pausa e, dopo aver acquistato un panino con formaggio e melanzane grigliate al bar della biblioteca, mi avviai verso il parco deciso a fare merenda seduto su una panchina, magari gettando qualche briciola di pane alle anatre giù al laghetto.

Stava iniziando la primavera, c’era un venticello che profumava di fiori d’arancio vicino all’entrata sud del parco, quella che dava su Piazza del Monticello.

Indossavo la mia usuale camicia azzurrina e una blusa leggera color indaco. Amavo la primavera perché potevo rispolverare dall’armadio certi vestiti che mi piacevano tanto. 

Passai davanti al laghetto delle anatre e notai che non ce n’era nemmeno una. Deluso proseguii fino alla panchina più vicina; si trovava proprio sotto un salice piangente. Nel tragitto incrociai un addetto del parco e gli chiesi che fine avessero fatto le anatre. Egli mi rispose con il tono esasperato di chi ha dovuto rispondere ripetutamente alla stessa domanda.

-Sono state rubate il mese scorso.

-Rubate?!

-Sì, rubate. E ora se vuoi scusarmi ho un mucchio di cose da sbrigare…

Mi sedetti sulla panchina, stringevo il panino tra le mani, ma non avevo più fame. Una sensazione di nausea e disagio mi annodava la bocca dello stomaco. Se fossi riuscito a razionalizzare ciò che provavo probabilmente avrei detto che mi sentivo, in una qualche maniera metafisica, responsabile del furto delle anatre, ma non avrei saputo spiegarne il motivo.

Buttai il panino nella spazzatura con un gesto di stizza e mi diressi verso casa. 

Trovai mia madre intenta a passare la lucidatrice. Faceva un baccano infernale e nemmeno mi sentì entrare. La televisione era accesa e trasmetteva, a un volume stratosferico, il telegiornale regionale. 

Una donna e suo figlio, che si trovava nel passeggino, erano stati falciati da un pirata della strada strafatto di alcool, hashish, cocaina e metanfetamine e che teneva nel bagagliaio dell’auto un paio di pistole non registrate, due chili di eroina pura al 75% e un computer portatile pieno zeppo di materiale pedo-pornografico. Il fatto che il conducente non avesse il regolare permesso di soggiorno aveva portato il suddetto avvenimento all’attenzione dei media che, pochi minuti dopo l’incidente, avevano già raccolto le dichiarazioni dei parenti della vittima, degli amici intimi e dei vicini di casa. La portinaia singhiozzava in diretta tv.

Strisciai verso la mia camera, la mia nausea non aveva fatto che aumentare, quando intravidi una busta appoggiata sul tavolo bianco della cucina. 

Il destinatario altri non era che Giuseppe Esposito. Me la rigirai tra le dita.

-Qualcuno deve aver sbagliato indirizzo…

La voce di mia madre lacerò l’intrecciarsi delle mie fantasie facendomi voltare di scatto.

-A quanto pare…- risposi fiacco mentre lei si dirigeva verso il frigorifero e lo apriva con un gesto vigoroso.

-Hai fame, Momò? Ci sono delle melanzane grigliate che…

Mi chiusi nella mia camera senza lasciarle finire la frase. Cosa avrei dato per abitare da solo! Mi guardai attorno sconsolato e mi diressi alla mia scrivania. Estrassi il tagliacarte da un cassetto e aprii con cautela la busta indirizzata a “me”, Giuseppe Esposito.

Alcuni giorni dopo, doveva essere un martedì, mi trovavo a bere un caffè macchiato della macchinetta nel cortile dell’università. Il cielo era nuvoloso e i piccioni tubavano mostrando al mondo l’eleganza dei loro corteggiamenti. Li guardavo, tanto per far qualcosa, quando il cellulare vibrò e, dopo aver constatato che mi stava chiamando un numero privato, risposi appena prima che scattasse la segreteria.

-Sì? Chi parla?

-Buongiorno, parlo con il signor Esposito?

-Esposito Giuseppe, sono io- dissi con fermezza; ero entrato perfettamente nella parte.

-Abbiamo ricevuto le schede da lei compilate e vorremmo informarla che è entrato a pieno titolo a far parte del nostro programma di ricerca. 

-Beh, sono lieto di sentirlo.

-Benissimo. Allora le comunico che lei dovrà presentarsi alle ore 8 di lunedì prossimo, il 15 aprile, allo stabilimento di via J.S. Bach 27 rosso. Ha capito bene?

Ripetei meccanicamente orario, giorno e indirizzo.

-Benissimo- mi rispose il mio interlocutore -Ah, e si ricordi di portare la sua scimmia. È di fondamentale importanza.

Durante il pomeriggio non feci altro che arrovellarmi sulla faccenda della scimmia. In effetti ero stato incauto mentre compilavo il questionario. Alla domanda a risposta multipla “Che animale domestico possiede?” avevo sbarrato la casella “scimmia”. Le altre opzioni erano “cane”, “gatto”, “coniglio” e “cavia peruviana”. L’avevo fatto così, di getto, senza fermarmi a riflettere sulle conseguenze della mia scelta. Sicuramente, avendo potuto scegliere se possedere o meno uno di quegli animali, avrei scelto la scimmia senza pensarci due volte. Già me la vedevo seduta accanto a me a colazione mentre prendeva una banana dal cesto della frutta e faceva una pernacchia a mia madre dopo aver gettato la buccia per terra, sul pavimento appena lavato.

Ora, però, le cose si erano complicate: dovevo procurarmi una scimmia e tra i suddetti animali era di certo la più difficile da reperire.

Terminai la giornata telefonando a tutti i negozi di animali della zona, ma senza successo. Nessuno di loro vendeva scimmie. Una commessa dalla voce saccente mi disse inoltre che “non sapeva nemmeno se fosse legale possederne una”.

La mamma quella sera andava al cinema con Saverio, il suo boyfriend. Mi portai la cena sul tavolino di fronte al divano: spaghetti al tonno piccanti, una specialità che amavo gustarmi in beata solitudine. 

Spulciavo siti internet sul mio portatile finché incappai in un annuncio dove si cedeva una scimmia adulta in cambio di una tartaruga di terra. 

Mandai giù un grosso boccone di spaghetti e mi grattai il capo facendo mente locale. La fortuna era dalla mia parte: la zia Adela possedeva una tartaruga di terra! Per giunta la teneva in giardino e nessuno si curava di lei, se fosse sparita non se ne sarebbero nemmeno accorti…

Scrissi all’autore dell’annuncio online e mi abbandonai allo schienale del divano. Mi sentivo soddisfatto e fiducioso.

Il giorno dopo mandai le foto di Simon, la tartaruga della zia, che avevo prelevato con facilità proprio quella mattina durante una breve visita, all’indirizzo di posta elettronica di tal Carmelo349. 

Lui mi rispose prontamente, era soddisfatto e intenzionato a portare a buon fine lo scambio. Mi mandò una foto di qualità discutibile del volto di quella che era, chiaramente, una scimmia: aveva un’aria davvero derelitta. 

Andai a ritirare il pacco all’aeroporto. Era una scatola sigillata con i buchi per l’aria. Non mi chiesero nemmeno il documento per ritirarla. Si vedeva che non vedevano l’ora di sbarazzarsene e presto anch’io capii il perché, poco dopo aver preso posto in un taxi: puzzava in maniera vomitevole. Infatti durante il viaggio sulla tangenziale non riuscii più a trattenermi e vomitai in un sacchetto di carta, di quelli che mettono anche negli aerei, con i quali il previdente autista aveva munito la sua vettura. Quando gli diedi i soldi della corsa gli lessi in faccia che non voleva vedermi mai più. 

Mi trascinai verso casa, il pacco era pesante e, mentre salivo le scale del palazzo, sentii distintamente l’ansito di quella disgraziata bestia provenire dalle fessure nel cartone. La cosa mi fece correre un brivido lungo la schiena.

La mamma era fuori a cena con Saverio – Benedetto, Saverio!- pensai per la prima e ultima volta nella mia vita. Portai il pacco in bagno e lo rovesciai nella vasca, mi infilai dei guanti di gomma e feci fuori quasi tutto lo shampoo “per capelli secchi e sfibrati” nel disperato intento di nettare quell’essere terrorizzato che, lanciando strida inenarrabili, tentava di fuggire dibattendosi come un pazzo. 

Dopo un po’ si arrese. L’asciugai e lo chiusi in una gabbia che avevo acquistato per l’occasione e nascosto nell’armadio a muro di camera mia. Rassettai il bagno: credo che a mia madre sarebbe venuto un infarto se lo avesse visto in quelle condizioni. L’indomani io e la scimmia avremmo dovuto presentarci allo stabilimento di via Bach. Andai sul poggiolo a fumare una canna per tranquillizzarmi. Rientrai quasi subito in camera mia e presi a sbuffare il fumo nella gabbia della scimmia. Speravo che si calmasse anche lei.

-Te lo sei meritato, vecchio mio.- gli dissi tra una boccata e l’altra.

Quella notte dormii beatamente. Anche la scimmia dormì e fu un sollievo perché mia madre aveva il sonno leggero e temevo che la sentisse mentre grattava le sbarre della gabbia.

Alle 6 ero già in piedi e facevo colazione con latte e cereali al cioccolato. Mia madre fumava accanto alla portafinestra che dava sul balcone, indossava la sua solita vestaglia rosa.

-Ti sei alzato presto…- notò lei sbuffando il fumo verso l’alto.

-Ho da fare all’università…

-Quando torni a casa?

-Non lo so ancora, magari ti chiamo più tardi.

-Sì, bravo, chiamami… 

Alle sette meno un quarto io e la scimmia eravamo già a bordo del tram diretto verso la zona industriale. Avevo approntato un’altra scatola di cartone con i buchi, per trasportarla e sottrarla agli sguardi altrui, ad esempio quello di  mia madre o dei vicini di casa.

Mentre il mezzo procedeva con l’usuale lentezza fermandosi ripetutamente per accogliere nuovi passeggeri e depositarne altri mi domandai come avrei potuto chiamare la scimmia. Tutti gli animali domestici hanno un  nome, dopotutto.

La scimmia era piccola e le mancava un arto. Era abbastanza ripugnante a dire la verità. Era piena di croste negli occhi e sulla schiena e, nonostante le avessi appeso al collo un Arbre Magique, il suo tanfo continuava a insinuarsi nelle mie narici e, come potei constatare da alcuni sguardi, anche in quelle dei miei compagni di viaggio.

La chiamai Handy, in onore della sua mano mancante. Poi mi ritenni soddisfatto e presi a guardare il susseguirsi di palazzi e strade tra i quali brillavano ancora le luminarie notturne; alle 7 e 30 si spensero e ciò mi rese un po’ melanconico. Giungemmo di lì a poco alla zona industriale, il capolinea era in Via Felix Mendelsshon, proprio di fronte all’Ikea. Dovetti fare un pezzo di strada a piedi e mi stupii come in quella zona desolata i nomi delle strade fossero intitolati ad illustri del mondo della musica classica. C’era Via Brahms, Via Wagner e Via Debussy. Le attraversai tutte accompagnato dal respiro affannoso di Handy.

Finalmente, mancavano pochi minuti alle 8, giunsi a destinazione. C’era un solo stabilimento, un parallelepipedo di cemento armato contornato da uno spesso muro, anch’esso di cemento, fornito di telecamere di sicurezza e spuntoni in ferro alla sua sommità. Dall’altra parte della strada c’era l’entrata di un campo Rom. Anch’esso era recintato.

Un uomo in divisa, sembrava un metronotte o qualcosa del genere, sedeva in un gabbiotto proprio a fianco dell’entrata pedonale.

-Sei Esposito?- mi chiese quasi come se fosse un crimine esserlo.

-Sì e lui è Handy- risposi abbozzando un sorriso e sollevando un poco la scatola che mi portavo appresso.

-Che puzza mostruosa! Sparisci!- tagliò corto lui facendomi cenno di entrare alla svelta.

Attraversai il parcheggio, era quasi vuoto. Poi vidi un gruppo di persone che stazionavano davanti ad una porta a vetri. Alcuni avevano cani al guinzaglio, altri portavano i loro animali all’interno di appositi trasportini. Li raggiunsi e posai il pacco con Handy a terra accanto a me. Mi accesi una sigaretta che avevo sottratto dal pacchetto di mia madre. Sperai che l’odore di fumo mascherasse l’odore della scimmia. 

C’era un cane, una specie di barboncino color caffellatte con la testa che sembrava quella di Uan di Bimbumbam, si ostinava a gironzolare intorno alla scatola di Handy. Per lui forse quella puzza era qualcosa di paradisiaco, non so. Fatto sta che Handy non gradiva molto la vicinanza di quel cane e prese a gridare in quel modo tremendo che avevo imparato a conoscere mentre gli facevo il bagnetto il giorno prima. Mollai un calcio al cane che si allontanò subito guaendo. La padrona era una tizia in tuta sportiva che pareva una professoressa di educazione fisica. Era l’unica che non teneva il cane legato e mi si avvicinò subito per lamentarsi che l’avessi colpito. Le dissi freddamente che se il mio animale lo avesse morso gli avrebbe potuto attaccare una qualche malattia tropicale e lei si allontanò senza ribattere, ma decidendosi ad agganciare al guinzaglio il collarino bordeaux del suo pupillo.

Passammo tutta la mattina in attesa, davanti a quella maledetta porta a vetri. Alcuni si spazientirono e andarono via. Altri si lamentarono con veemenza, ma rimasero lì. 

Finalmente intravedemmo la sagoma di una persona muoversi dietro la porta che poco dopo si aprì.

Comparve la dottoressa Englander la quale aveva lo sguardo più freddo di una sala operatoria. Ci scortò all’interno dell’edificio, un labirinto di corridoi, sale d’attesa con tanto di divani in finta pelle e macchinette del caffè, laboratori e uffici.

Ci divise in gruppi a seconda della specie che possedevamo. Io ero l’unico a possedere una scimmia e mi fu indicata una saletta dove avremmo dovuto, io e Handy, aspettare il nostro turno. Ci chiamavano “binomi”: la persona e il suo animale. Io e Handy eravamo il “binomio P”. 

-Sei agitato, Handy?- gli dissi non appena fummo soli.

-Non preoccuparti, vecchio mio, non appena usciti di qui andremo a farci un paio di banane, che ne dici?

Pensai che stavo rincoglionendo, e di brutto anche. Poi mi venne in mente che di lì a poco avrei dovuto dare quell’esame sul Dolce Stil Novo e mi sentii davvero un idiota a trovarmi lì anziché in biblioteca a studiare. Avrei potuto almeno portarmi un libro da leggere, per tenere la mente allenata, per contrastare quell’attesa mortale. Mi avevano assegnato la lettera P, l’ultima della lista rispettivamente a quanti eravamo. Nella saletta dove mi trovavo c’era una pianta sistemata in un bel vaso di ceramica bianco. Ornava un angolo della stanza. La guardai scommettendo con me stesso se fosse vera o posticcia. Poi mi alzai sicuro della mia supposizione per esaminarla da vicino. Come pensavo: era finta, ma fatta dannatamente bene. Mia madre avrebbe fatto carte false per possedere una pianta simile. La luce del pomeriggio, calda e giallognola, entrava dall’unica finestra. Stavo impazzendo per la noia e Handy doveva aver fatto i suoi bisogni nello scatolone. Avevo preso a guardare fuori – la finestra dava proprio sul piazzale dello stabilimento – nella speranza che qualcuno degli altri partecipanti al progetto uscisse e potessi chiedergli qualche informazione in merito, magari anche circa il compenso che avremmo dovuto ricevere al quale nessuno aveva ancora accennato. Il cortile rimase deserto tutto il giorno e ciò contribuì a incrementare il mio sconforto. 

-Coraggio, Handy- dissi ad un certo punto sollevando la scatola e avviandomi verso la porta.

-Ne ho abbastanza, ce ne andiamo.

C’era un silenzio a dir poco spettrale, lì dentro. Mi lasciai alle spalle una serie interminabile di corridoi tutti uguali, bianchi con lo zoccolo porpora e il pavimento nero. Ogni tanto una pianta, di solito un ficus, finto, rompeva la monotonia. Presi a sudare, ma non era per la fatica. Una sorta di sesto senso animalesco mi diceva che dovevo uscire da quel luogo, ma non sapevo come né dove. Handy aveva smesso di ansimare e a un certo punto mi fermai per la preoccupazione e aprii la scatola, pur sapendo che non la potevo richiudere senza nastro adesivo. Era morto. 

Per lui non c’era più molto da fare: lo appoggiai nel vaso di una pianta, lì accanto. Provavo un forte senso di vuoto, ma il pensiero di dover fuggire mi scosse all’improvviso e iniziai a correre a perdifiato. 

Stavo per perdere le speranze quando in lontananza, all’estremità dell’ennesimo corridoio, notai il riverbero azzurrino di una porta a vetri.

Mi scagliai in quella direzione correndo a più non posso e mi ci tuffai letteralmente contro. 

Fui sommerso da una forte luce innaturale attraverso la quale misi a fuoco gli occhi gelidi della dottoressa Englander. Mi stava fissando attraverso le sbarre di una gabbia.

-Ben svegliato, Handy. A quanto pare con te l’esperimento ha funzionato.

Tentai di articolare delle parole, ma dalla mia bocca uscì solamente un sommesso gorgoglio. Mi guardai le mani, anzi, la mia unica mano: era bruna, pelosa e coperta di croste.

La missione

Erano le nove passate quando Hilman varcò la porta della foresteria. Non c’era nessuno, tutto regolare.

Era tutto così pulito quella mattina, prima che la missione cominciasse. Ora parevano passati cent’anni. E di fatto era proprio così. Il vecchio Rudiger, il capo dell’equipe scientifica, non aveva fatto altro che raccomandarsi con lui circa le coordinate temporali da seguire.

-Quell’uomo può farti venire un cancro al cervello a forza di blaterare- pensò Franz Hilman mentre studiava lo spazio che lo circondava. Più tardi lo avrebbero raggiunto gli altri e allora sì che sarebbe cominciato il divertimento. 

Alle undici Franz si distese su una brandina impolverata e si accese un sigaro. Fuori era buio pesto. E pensare che una volta lì c’era una città con locali notturni e tutto il resto. Nascimiento era in ritardo. Come al suo solito. Non è che ci si poteva aspettare che dandosi appuntamento cent’anni avanti nel tempo sarebbe cambiato qualcosa; le cose, di norma, tendono a peggiorare, non il contrario. 

Era l’una di notte quando una donna irruppe nella stanza facendo sobbalzare Hilman che si era giusto assopito un attimo. 

-Quel bastardo di Nascimiento!

La donna aveva un’aria sconvolta e altri non era se non il maggiore Muntz. 

-Che cosa è successo, maggiore?- chiese Franz con la voce impastata dalla stanchezza.

-Si tratta di Nascimiento. Lui ha sbagliato il conteggio temporale. Il dottor Rudiger voleva sospendere l’operazione. 

-Che cosa? Non mi dirà che per quell’idiota…

-No, no. Siamo ancora in gioco, Hilman. Solo che le cose si sono complicate. 

-E Les Fauves? 

-Arriverà col prossimo lancio temporale. Stanno elaborando un piano. Lui ci porterà le nuove istruzioni.

-Come sarebbe?

-Nascimiento si è materializzato a un anno da ora. Dobbiamo aspettarlo e adattare il piano a questo nuovo imprevisto.

-Un anno? E che dovremmo fare nel frattempo? Girarci i pollici?!

-Dobbiamo sopravvivere. E portare a termine l’operazione. Non ci sono altre possibilità.

Nascimiento non era destinato ad arrivare. La stretta temporale lo risputò fuori un anno dopo con il cranio appiattito come se ci fosse passato sopra un rullo compressore.

-È morto.

-Complimenti per la diagnosi, Les Fauves.

-Non posso crederci- disse il maggiore Muntz passandosi una mano tra i corti capelli biondi.

-Non era da escludere, maggiore, ma dopo un anno di attesa non mi immaginavo proprio che potesse finire così- concluse Franz Hilman scuotendo il capo e accendendosi il suo ultimo sigaro -L’avevo conservato per l’occasione, volete favorire?

-No, grazie, Hilman.

-No, amico, mi fa vomitare, senza offesa eh?

Franz fumò guardando un orizzonte boscoso sul quale gravava un sole rosso in procinto di inabissarsi tra una cattedrale di nubi color piombo.

Seppellirono il corpo di Nascimiento e dissero le “due parole” di rito.

-Cazzo, Nascimiento, combini casini anche da morto- terminò Les Fauves.

-Proprio nel suo stile.

-Eh, già.

Due anni dopo erano ancora vivi. Sopravvivevano come i pochi che ancora popolavano la terra e si ostinavano a perpetrare l’esistenza della specie umana.

-Avrebbe significato qualcosa per l’umanità quello che avremmo potuto fare?- disse una sera Les Fauves mentre arrostiva un ratto su un fuoco di fortuna.

-Credo di no- rispose il maggiore Muntz mentre si puliva le unghie con la punta del suo coltello. Portava sempre i capelli a spazzola e non amava essere apostrofata diversamente che col suo grado militare.

Franz Hilman scoppiò a ridere. Le scintille del fuoco si perdevano nell’oscurità; spuntarono le prime stelle.

04. Vecchie abitudini, nuovo Sé

La slitta trainata dai cani giunse ad un villaggio le cui basse abitazioni erano coperte da una spessa coltre di neve. L’uomo che la conduceva gridava secchi comandi ai suoi cani con una voce roca che si perdeva nel silenzio della notte innevata; gli animali ubbidivano come un unico, possente essere. I pattini della slitta sibilavano e Jay, legato strettamente al corpo di essa, era semiaddormentato, cullato da quel suono ipnotico. Improvvisamente, appena dopo l’ennesimo urlo del conduttore, i cani sterzarono e si infilarono in uno stretto viottolo che, contornato da due muri di cinta, portava al cortile di un edificio basso e lungo. A prima vista pareva un ambulatorio o una scuola. Una donna era ferma in piedi sul porticato di cemento, probabilmente li stava aspettando. Il suo volto era imperscrutabile, freddo e geometrico, i suoi lineamenti sembravano disegnati col righello. La slitta era ferma ormai. Jay Fox Middlethorne si guardò intorno muovendo a fatica la testa pesante, si sentiva stanchissimo, privo di forze. Il respiro caldo dei cani produceva delle ritmiche nuvolette di vapore che apparivano intermittenti, rischiarate dalla luce che illuminava il porticato, dove quell’austera donna non aveva mutato posizione.

“Ne ho trovato un altro, miss Adelby!” gracchiò il conduttore rivolto alla donna, poi iniziò a trafficare con le cinghie che assicuravano Jay alla slitta. Miss Adelby sembrava annoiata, sbuffò e scribacchiò qualcosa su un taccuino che aveva in tasca. Portava un rigido tailleur militare color cachi con sopra una pesante giacca foderata di pelliccia sintetica. “Pensavamo che la tormenta vi avesse inghiottito, signor Porlen.” disse lei infine sospirando. “Naaa,” fece lui gonfiandosi leggermente “questa è poca roba, signora. Potremmo partire seduta stante per un’altra ricognizione, io e la mia muta”; la donna accennò un glaciale sorriso, poi disse: “E il ragazzo? Può camminare?”

“È conciato male questo qui, rischia l’ipotermia.” rispose Porlen caricandosi l’esile corpo di Jay su una spalla, come un sacco di patate, dirigendosi nell’edificio attraversando il porticato illuminato da freddi neon. Due giovani donne, forse infermiere, gli vennero incontro aiutandolo a deporre il bambino su una branda ospedaliera le cui lenzuola puzzavano di disinfettante ed erano in certi punti macchiate di sangue che, nonostante fosse stato lavato, non era venuto via. Jay si sentì sprofondare in quella morbidezza avvolgente, su quel materasso sfondato che aveva accompagnato alla morte una moltitudine di soldati; non si accorse nemmeno di quando gli bucarono il braccio per infilargli una flebo di vitamine. Sentiva un vociare confuso e ombre indistinte che si muovevano nella stanza, poi si addormentò.

Il signor Porlen uscì sul porticato e tirò una boccata d’aria fresca a pieni polmoni, detestava l’odore degli ambulatori: puzzavano di malattia, di infezione, di morte, pensava. Miss Adelby stava fumando una sigaretta, una di quelle lunghe e strette. Una neve sottile aveva ripreso a cadere, turbinando freneticamente. Nonostante quello che aveva sostenuto prima con spavalderia, l’uomo pensò che la cosa migliore da fare fosse far riposare i cani e dargli una ciotola di meritata zuppa. Anche lui aveva fame, del resto; meditò di fare un salto alla mensa per vedere se fosse avanzato qualcosa dalla cena di quei ragazzini. Non ci sperava nemmeno troppo, mangiavano come cavallette, quelli.

“Ottimo lavoro, signor Porlen.” echeggiò alle sue spalle la voce della Adelby, mentre conduceva i cani al ricovero delle bestie, nella vecchia palestra. “Grazie, signora.” tagliò corto lui sparendo nell’oscurità punteggiata di bianchi fiocchi ballerini.

Quando Jay si svegliò doveva essere l’alba o poco prima. Spalancò i grandi occhi color del ghiaccio cerchiati di nero e si ritrovò a fissare il grigio soffitto della camerata dove era stato portato. Le prime luci penetravano da alcune anguste finestre situate molto in alto e fornite di pesanti sbarre dalle quali si stiracchiavano delle lunghe ombre oblique. C’erano altri letti oltre al suo, nella stanza, e anche altri bambini. Jay si chiese se non fosse capitato nuovamente in un orfanotrofio, quel pensiero gli piombò addosso avvilendolo profondamente. Poi pensò a quell’uomo: Uro Moggie. Era morto per davvero? Quello che era certo era che anche il vecchio Jay Fox Middlethorne era morto con lui. Era cambiato. Qualcosa di nuovo era germogliato dentro di lui, qualcosa di vivo. Lo doveva forse a quel giovane uomo che avevano abbandonato a ricoprirsi di neve sul ciglio di una strada? Jay pensava di sì, ne era convinto fermamente. E così meditando si rese conto di avere un obiettivo: tornare da Uro, ovunque egli si trovasse. Doveva sincerarsi di persona della sua dipartita. Altrimenti sarebbe stato un inutile vigliacco che meritava di marcire ai lavori forzati come tutti quei ragazzini che si aggiravano come spettri nelle miniere di Salburn.

Il suono di un campanaccio lo fece sussultare. Una donna, alta e grassa, entrò con passo pesante nella camerata, scuotendo energicamente una grossa campana da bestiame. Il suo volto esprimeva una cupa soddisfazione per quello che stava facendo. I dormienti si svegliarono bruscamente e scattarono in piedi a fianco del letto e iniziarono a rassettarlo freneticamente, le facce pallide e smunte e gli occhi privi d’espressione parevano appartenere a un’orda di catatonici. Jay li imitò alla svelta percependo il glaciale contatto dei suoi piedi nudi sul pavimento. La donna abbaiò un comando e i ragazzini si bloccarono sull’attenti. Indossavano tutti un grigio pigiama con il colletto bianco e dei piccoli bottoni avorio. Al segnale successivo iniziarono a spogliarsi fino a rimanere con addosso la sola biancheria: faceva un freddo del diavolo, pensò Jay, il cui sguardo andò immediatamente alla sedia metallica accanto al suo letto. Vi erano adagiati dei vestiti, perfettamente piegati e, sotto di essa, un paio di scarponcini di pelle che somigliavano vagamente a quelli che indossava miss Coney giorni addietro. I bambini si vestirono in fretta e presto anche Fox fu pronto a seguire i compagni che, in fila indiana, si apprestavano ad uscire dalla camerata. Quei vestiti erano consunti e pungevano, i pantaloni erano troppo corti per lui, che era alto per la sua età, ma si guardò bene dal grattarsi o dal manifestare una lamentela qualsiasi, aveva capito perfettamente che nessuno lo avrebbe  ascoltato.

I ragazzini giunsero, marciando a testa bassa, ad una stanza di fattura simile a quella del loro dormitorio, solo molto più grande: la mensa. C’erano lunghe file di tavoli e sedie. Alcuni erano già seduti e mangiavano avidamente da grosse tazze. Jay e quelli della sua camerata si misero in fila per ricevere la loro tazza e il cucchiaio. Alcune donne dall’aspetto severo, che, come miss Adelby, indossavano tailleur militari, sovrintendevano alla situazione. Impugnavano dei lucidi frustini per cavalli. Avevano tutte i capelli raccolti in una stretta crocchia sulla nuca e un imperscrutabile volto dal quale non traspariva un accenno di umanità. C’erano altre donne, poi: servivano una brodaglia beige pescandola con grossi mestoli da pentoloni fumanti. Esse erano abbigliate diversamente: indossavano delle retine nere sulla testa e un grosso grembiule azzurrino, dal quale spuntavano le maniche grigie e la lunga gonna di un ampio vestito dal tessuto pesante e grezzo. Jay guardava la nuca rasata del ragazzino dinnanzi a lui, dalla sommità del suo capo spuntavano ciuffi di capelli rossicci. “Chissà chi è costui?” si domandò, mentre la fila avanzava lentamente. Poi il suo sguardo si posò furtivamente sulle teste dei presenti e notò che tutti i bambini erano rapati allo stesso modo. Istintivamente si portò le mani scheletriche alla nuca e scoprì che avevano rasato anche lui.

“Ehi carino, mani lungo i fianchi!” sbraitò una donna non distante da lui. Jay si ricompose all’istante, chinando la testa. “Così si ragiona.” continuò lei. Fox percepì qualcosa di beffardo nel suo tono: gli montò una collera rovente che gli infiammò le orecchie e gli strinse la gola. Poco dopo teneva in mano una ciotola bianca di ceramica dai bordi venati e un cucchiaio recante delle poco invitanti macchie di unto; la lunga fila davanti alle pentole era quasi terminata. La brodaglia fluì nella ciotola che Jay protendeva in direzione di colei che, instancabilmente, ne riempiva una dopo l’altra. Il volto di quella donna era solcato da alcune rughe e la sua bianca pelle tremolava come un budino ad ogni suo movimento. Aveva occhi blu piegati all’ingiù che le conferivano un espressione sconsolata, da Madonna. La sua bocca sottile, malamente ispessita dal trucco, era rivolta anch’essa verso il basso. Jay pensò che la sua faccia somigliava a quella di un vecchio pesce infelice; poi egli si diresse a sedere accanto a due ragazzini smunti che trangugiavano avidamente la loro razione intingendovi alcuni tozzi di pane raffermo. Nessuno parlava, nessuno alzava la testa, nessuno guardava altrove. Tutti tenevano la testa china sulla loro tazza o sul mucchietto di pane secco, che veniva rimpolpato non appena si esauriva, rovesciandolo da dei grossi sacchi di carta che puzzavano di muffa. Jay imitava gli altri, ma percepiva nel suo intimo che qualcosa non andava, a prescindere dall’idea che si era fatto della situazione che stava vivendo. Sapeva bene cosa significasse vivere con degli altri bambini: dormire nella camerata, essere svegliati all’alba, mangiare in mensa tutti insieme; essere obbligati a nutrirsi di qualcosa di squallido, di rancido. Ma quel luogo era diverso. Non c’erano cameratismo, occhiate furtive, né l’ombra di un qualsivoglia dissenso: quel luogo era strano, spettrale. Gli unici rumori erano lo sciabordio di quel liquido caldo che scivolava giù per le avide gole dei presenti; i loro cucchiai che urtavano contro il materiale della tazza; il pane vuotato al centro del tavolo. Fugaci manine pallide scattavano procacciandosi quell’alimento secco e, altrettanto velocemente, lo portavano alla bocca ingurgitandolo dopo rapide masticate da criceto. Il contenuto della tazza di Jay emanava un vago odore di caffè sintetico. Il suo calore gli scaldava le mani, che cingevano il contenitore, ed egli rimase così, assorto, nell’atto di assorbirne il tepore. Jay fissò a lungo la superficie del liquido beige. Da quanto tempo non mangiava? Non lo ricordava. Poi si decise e portò la tazza alle labbra. Un forte dolore alla caviglia lo distolse dal suo intento. Il bambino davanti a lui gli aveva appena dato un calcio!

03. Solo al mondo

Era successo tutto così in fretta, troppo in fretta. Jay Fox Middlethorne stava vivendo un brutale distacco dalla realtà. Erano stati i cinque giorni più intensi della sua giovane vita ed ora, sedeva accanto a quell’uomo che inizialmente aveva detto di chiamarsi miss Coney, poi era diventato il soldato semplice Preston, fino a diventare un certo Uro Moggie, membro di un’organizzazione paramilitare interplanetaria. Il bambino era confuso, il colore della sua pelle aveva virato al giallognolo, i neri capelli intrisi di sporcizia e sudore gli si erano incollati alla fronte. Uro Moggie era immobile, sdraiato a terra, nella polvere, con una pallottola nelle viscere; il suo respiro era flebile, il suo volto teso dallo sforzo per non perdere conoscenza;  “Acqua… ” bisbigliò “F-Fox… Dammi… Acqua…”
Jay si guardò intorno con fare smarrito finché notò una pozzanghera fangosa sul fondo di un fosso a pochi metri dal loro nascondiglio; dopo aver brevemente ragionato sul da farsi, egli si decise a muoversi verso di essa, strisciando a terra come un serpente. Gli erano sempre piaciuti, i serpenti, del resto. Era quasi buio e la paura di essere avvistato dai soldati, che gli serrava la gola, lo aveva trasformato in un animale guardingo e sfuggente. Il terreno scuro scorreva sotto il suo ventre; Jay avanzava lento, ma costante con gli occhi fissi sul riverbero dorato che l’ultima luce del giorno proiettava sulla liscia superficie di quell’acqua torbida. Gli venne quasi da sorridere, una smorfia di disperazione, quando vi giunse, tanto era passato da quando aveva bevuto l’ultima volta e da quanto gli sembrava allettante quella brodaglia terrosa che gli si parava davanti. Le sue labbra si tesero leggermente e il dolore che provò gli ricordò che erano coperte di piaghe, da cui fluirono alcune gocce di sangue delle quali percepì il sapore. Non sapeva come trasportare l’acqua a Uro Moggie quando, mentre il pensiero lo tormentava e i suoi occhi saettavano qua e là cercando una soluzione, notò che il suo braccio, ormai sprofondato nella pozza, vestiva la sua logora giacca di lana che si era puntualmente intrisa del prezioso liquido.

Il bambino pensò che forse l’uomo era morto. Era più pallido di prima, marmoreo. La bocca tiratissima, semiaperta, gli occhi chiusi. Gli fece gocciolare dell’acqua sul viso strizzando piano la sua manica, poi sulle labbra, qualche goccia si insinuò dentro. Uro emise un lieve colpo di tosse. Era vivo. Jay si sentì sollevato, non voleva rimanere solo, alla mercé di quelle orde di soldati affamati di vendetta. Avrebbe voluto che Uro gli parlasse, che gli dicesse che sarebbe andato tutto bene, che sarebbero usciti da quell’incubo; o al limite, che gli desse degli ordini, che gli dicesse cosa fare in modo da farlo sentire utile e occupargli la mente per un po’. Invece l’uomo giaceva al confine tra la vita e la morte e taceva. La notte era giunta, buia e senza luci. Jay tremava di freddo, gli umidi stracci che portava addosso gli stavano appiccicati alla pelle.
L’ultimo pasto, per così dire, che aveva consumato, risaliva al giorno prima quando, furtivamente, aveva depredato un bidone dell’immondizia dai rifiuti provenienti dalla mensa dei militari di Salburn. L’edificio, in realtà, era andato completamente distrutto nel poderoso incendio del quale lui e Uro erano responsabili, ma, ironia della sorte, il cassonetto della spazzatura lì adiacente, era rimasto intatto.
Al momento, Jay aveva così fame che il pensiero di sgranocchiare qualche foglia di cavolo marcia e del pane ammuffito, gli faceva venire l’acquolina in bocca. Mentre era immerso in questi sconsolati pensieri, il suo stomaco non la smetteva di contrarsi e brontolare; era come se si torcesse su sé stesso. “Si sta mangiando da solo” pensò il bambino scrutando nell’oscurità. Ad un certo punto, dopo pochi istanti che Jay si era assopito con la testa ciondolante sul petto, Uro Moggie parlò appena percettibilmente: “Sei qui, F-Fox?…R-Rispondi, Fox…”
“Sono qui!” esclamò lui destandosi all’improvviso “Sono qui, Uro, puoi sentirmi?”. La voce del piccolo Middlethorne era incrinata dalla disperazione, nonostante egli cercasse di mascherarlo; si rese conto, proprio in quel momento, che Uro Moggie era l’unica persona al mondo che gli fosse rimasta, l’unico testimone della sua esistenza. “D-Devi chiamarli… Non possiamo più… P-Più f-farcela da soli…” biascicò l’uomo morente con voce flebile. “Chi?! Chi devo chiamare?! Uro! Dimmelo, ti prego!” proruppe il bambino con voce acuta. “L-Lei.” rispose Moggie “ È scesa dopo di noi… L-La fermata… T-Treno… Lei sa.” un lunghissimo sospiro seguì tali parole; “Lei sa.” ripeté.

Poi iniziò a nevicare.

Dapprima non si posava. Poi iniziò a depositarsi, strato su strato e, in poco tempo, ogni cosa fu ricoperta. Si stava mettendo davvero male, pensò Jay. Uro invece, dopo l’immane sforzo di pronunciare le ultime, poche parole, era caduto in un sonno pesante. Era talmente buio che il bambino non poteva vedergli il viso, ma percepiva la distensione dei suoi lineamenti; il suo volto di giovane uomo, appena punteggiato di barba color rame, era placido come il suo respiro. Si stava forse arrendendo alla morte? Jay si sdraiò accanto a lui, meditava sul da farsi e sulle sue ultime frasi. “Lei sa.” rimuginò “Ma lei, chi?”. La sua coscienza si stava dibattendo tra il sonno e la veglia, gli pareva di vedere delle ombre più scure della notte che danzavano dinnanzi a lui. Una stella lontana ardeva di un calore irreale, una stella cadente, una stella che sfrecciava nell’oscurità. Era così vicina che gli parve di poterla afferrare, un sogno bellissimo, pensava il bambino, “Anche Uro si scalderà…”
“Ehi! Ragazzo, sveglia, accidenti!” la voce roca di un uomo giungeva, da lontanissimo, alle orecchie di Jay. “Ehi! Ehi! Forza, su!” l’uomo prese a scuoterlo come un fuscello, la luce di una lanterna gli illuminava parzialmente il viso che era coperto da una foltissima barba grigia. Dai baffi pendevano alcuni ghiaccioli come stalattiti. “Lui… lui sta male, sta male, aiutalo!” gracchiò il bambino indicando il corpo di Uro Moggie che, giaceva lì accanto, coperto di neve. L’uomo barbuto gli si avvicinò, esaminandolo. “Mi dispiace, figliolo…” disse infine scuotendo la testa “Il tuo amico non ce l’ha fatta.”
Jay non credeva alle sue orecchie, non voleva crederci! Un grido gli si strozzò in gola e prese a dimenarsi ed annaspare cercando di raggiungere il corpo di Uro Moggie, ma era troppo debole e l’uomo lo agguantò e, depositandolo sulla sua slitta, iniziò a legarlo ad essa con delle cinghie di cuoio. “Ascoltami, ragazzo, per lui non c’è più niente da fare, ma tu, tu puoi vivere! Però dobbiamo andare via ora, adesso, mi capisci?” fece poi egli scuotendolo nuovamente, ma Jay non capiva affatto, aveva gli occhi grondanti di lacrime e un lamento disperato che gli gorgogliava dentro. La slitta partì ad un grido dell’uomo, era trainata da cani le cui teste ondeggiavano ritmicamente mentre correvano nella tempesta.

 

 

 

02. Le speranze del caporale

Nell’area ristoro della piccola stazione di rifornimento spaziale Beta-6 un gruppetto di uomini stava discutendo animatamente. Il più anziano aveva due folti baffi argentei e un cappellino da baseball con la visiera al contrario; ascoltava i presenti spostando gli occhi da un oratore all’altro, era serio, ogni tanto lo si udiva sbuffare lievemente, poi si passava una mano sulla ispida ricrescita della barba. “Ti dico che la missione è fallita!” sbottò un giovanotto lentigginoso interrompendo le elucubrazioni del suo interlocutore. “E si può sapere come lo sai, Dabron?” gli rispose un altro, più alto e con voce baritonale, la sua folta barba corvina era piena delle briciole di un panino che aveva gustato poc’anzi. “Ascoltatemi tutti,” disse pacatamente Denny Dabron, cercando di recuperare la calma perduta e squadrando i cinque compagni, “Primo: nessun contatto radio da cinque giorni a questa parte; secondo: non dimenticatevi con chi abbiamo a che fare, quei bastardi non si fanno problemi a bollire le persone e a inscatolarle per bene una volta che non ne hanno più bisogno! Terzo: non sarebbe certo la prima volta che perdiamo qualcuno, quindi…”

“No, non lo accetto.” proruppe il più anziano, Vlad Moggie, e la sua voce cavernosa fece abbassare la testa a tutti gli altri; ognuno di loro sapeva che il soldato che si era offerto per andare in missione era Uro Moggie, il figlio più piccolo di Vlad. Nessuno lo considerava all’altezza, ma il ragazzo aveva insistito con veemenza; lo consideravano troppo gracile e femmineo per una responsabilità così grande. Il padre aveva interceduto e garantito per lui, conosceva il suo valore, lui sì che si fidava del suo Uro.

“Dovremmo avvisare il capo, che dite?” esordì un giovane dal colorito latteo e dai capelli biondo chiarissimo “Non possiamo abbandonare la posizione senza il suo consenso, anche se sono dell’idea che qui il nostro lavoro possa considerarsi concluso.” Lo spettro del fallimento, che già serpeggiava tra loro, li costrinse ad un prolungato silenzio. I fratelli Brewer si scossero per primi e terminarono, quasi all’unisono, il poco caffè ormai freddo nei loro bicchieri di carta. Vlad aveva un colorito tendente alla tinta dei suoi baffi,  giorni di trepidante attesa lo avevano provato più di quanto si sarebbe immaginato. Si sentiva responsabile per l’esito di quella missione, lui e Uro l’avevano pianificata insieme per mesi, il capo gli aveva dato il suo benestare, si era fidato di loro, ma adesso? Cosa sarebbe successo di lì in poi? Non poteva credere che fosse tutto finito così, non avrebbe abbandonato suo figlio, era l’unico che gli rimaneva, perdio!

“Se siete d’accordo, cari amici, contatterò io il generale.” disse infine l’anziano con voce ferma “Sei sicuro, Moggie?” iniziò Trevor Brewer con voce preoccupata “Gli effetti collaterali potrebbero…”

“Ce la faccio!” tagliò corto Vlad “Questa volta spetta a me! Aspettatemi all’aeronave.” Gli astanti assentirono col capo e si avviarono verso l’uscita dell’area ristoro. Grave, l’altro Brewer, si avvicinò nuovamente al vecchio commilitone e, fissandolo con due occhi fiduciosi sovrastati da un bruno monociglio, gli fece: “Il capo capirà, magari saprà illuminarci con una nuova strategia… Io credo ancora in Uro, per quello che può valere.”

Vlad Moggie entrò dentro il bagno destinato agli esseri di sesso maschile, chiuse a chiave la porta alle sue spalle e si diresse verso il lavabo che era sovrastato da un piccolo specchio unto. Si squadrò in silenzio per un momento. Ne aveva passate tante, troppe in effetti. Ma perdere anche il suo ultimo figlio… No, non lo poteva sopportare. La sua divisa blu era decisamente vecchia e sporca, i bottoni dei taschini erano quasi saltati tutti via. Sbottonò con cautela l’ultimo bottoncino rimasto ed estrasse dalla tasca una fiala contenente un liquido violetto. Lo scosse un poco, poi lo aprì e lo bevve d’un fiato. Il cuore iniziò a battergli all’impazzata, si sentì mancare il fiato e caracollò all’indietro accasciandosi contro la bianca parete piastrellata. Scivolò a terra piano piano, concentrandosi sul suo respiro. Doveva solo respirare, respirare ancora, con calma. Dopo un tempo indefinibile, un’eternità per i suoi sensi intorpiditi, si ritrovò a prendere coscienza, come se si stesse destando da un lungo sonno e stesse poco a poco recuperando la lucidità. Il luogo dov’era seduto, lo squallido bagno di una stazione di rifornimento spaziale, gli pareva pervaso da una fluidità, un’armonia della quale si sentiva gioiosamente parte; colori caldi di una potenza tattile lo avvolgevano ed era come se un vortice di intenzionalità lo spingesse verso un riverbero azzurrino che baluginava sopra il lavandino. Lo specchio! Sì, lo specchio! Vlad si alzò e, con estrema lentezza, portò la visuale al suo livello. Ci guardò dentro.

“Vlad Moggie!” una voce femminile risuonò nell’aria e l’uomo, istintivamente, drizzò la schiena e mettendosi sull’attenti esordì: “Generale Middlethorne! I miei rispetti!”

Al posto del viso di Vlad c’era, nello specchio, il volto severo, ma sereno al tempo stesso, di una donna dai capelli cortissimi e occhi freddi come schegge di ghiaccio. “Felicitazioni, caporale!” gli sorrise lei, Vlad era confuso. “Sapevo che mi dovevo fidare del suo giudizio! La missione non è forse andata secondo i binari prestabiliti, ma… Mi aspetto che lei e i suoi andiate subito a fornire supporto sul campo. Su Limbion le cose sembrano essersi complicate parecchio.” Così dicendo, la donna, gli mostrò la prima pagina del Discreto Cartaceo, la testata giornalistica più importante del pianeta Limbion. Essa recava a caratteri cubitali la scritta: “Salburn brucia”. Un sorriso increspò le labbra del vecchio, percepì un forte pizzicore all’attaccatura degli argentei baffi e il peso di due grosse lacrime premergli da dentro gli occhi.

“A presto, caporale.” disse il generale, ma la sua voce era come un’eco in una tormenta. Il suo volto era ormai scomparso dallo specchio. Vlad Moggie rimase a tu per tu con se stesso. Due umide strisce gli attraversavano le gote.

01. L’enigmatica miss Coney

Le palpebre pesanti di miss Coney erano tutto ciò che valeva la pena di vedere. Il treno oscillava, lanciato in una notte senza luna. La luce pallida che illuminava lo scompartimento era intermittente, assecondava i bruschi scossoni del mezzo rendendo impossibile la lettura. Jay era comunque troppo stanco e svogliato per desiderare di perdersi tra le pagine di un buon libro. La donna seduta dinnanzi a lui, miss Coney, avrebbe invece fatto carte false per sfogliare un quotidiano; tutto quel silenzio scandito dal ritmico trotto del treno sulle rotaie, l’oscura campagna senza luci al di là del vetro, le sue scarpe di cuoio che si stavano rivelando sempre più scomode ad ogni minuto che passava e quel bambino dall’aria truce che la fissava: cosa non avrebbe dato per distrarsi un po’! Jay non riusciva a staccare gli occhi da quelli di lei, lo affascinava come, gradualmente, si stessero abbandonando alla stanchezza. Quelle palpebre stavano lottando contro la forza di gravità. Le lunghe ciglia nere di miss Coney pesavano tonnellate. Lei si sforzò di pensare a un gioco, qualsiasi cosa per distrarre il bambino, ma non le veniva in mente niente, era stanca, aveva diritto ad esserlo, accidenti! Ma il suo compito non era ancora terminato, doveva condurre il piccolo a Salburn e mancavano ancora un paio d’ore all’arrivo. Non poteva cedere alle lusinghe del sonno. E poi lui, Jay Fox Middlethorne, sembrava così sveglio, così pronto a lanciarsi in una qualche bravata da bambini non appena lei si fosse addormentata. Doveva stare all’erta con un tipetto come lui.

Jay era letteralmente stregato dall’osservazione della sua accompagnatrice, la sua curiosità indugiava in ogni piccola, infinitesimale, ruga di lei. Era la prima volta, in tutta la lunga giornata appena trascorsa, che aveva modo di guardarla, di carpire, su quel volto esausto, ciò che più di tutto ella cercava di nascondere ai suoi occhi: la sua umanità. Quel mattino, mentre con altri suoi compagni recitava a memoria la parola di Cristo, prima di trangugiare quella pappa grigia che i frati dell’orfanotrofio chiamavano “colazione”, il direttore, l’abate Kent, lo aveva convocato nel suo ufficio. L’abate Kent era un uomo magro, scheletrico, che a stento si sarebbe distinto da un appendiabiti coperto di stracci. Aveva accolto Jay con un benevolo sorriso sdentato presentandolo a miss Coney, la donna che, al momento, sedeva innanzi a lui su quel treno diretto a Salburn. Il bambino, che aveva sempre vissuto tra le mura dell’Orfanotrofio di Cristo Misericordioso, di certo non immaginava come la sua vita sarebbe cambiata da quel momento in avanti; sapeva bene, quando vide la donna firmare un assegno sotto i scintillanti occhi dell’abate, che sarebbe successo qualcosa che lo riguardava, ma cosa?

“Middlethorne, prepara le tue cose e segui la signorina” fu l’ultima frase che pronunciò l’abate Kent al piccolo Jay il quale, senza salutare nessuno degli altri bambini con cui era cresciuto, si avviò alla camerata dove si coricava la notte per radunare i suoi scarsi averi: un coltello a serramanico (del quale i frati ignoravano l’esistenza); una cartolina rappresentante la Madonna con Gesù Bambino e la frase “A mio figlio Jay F. Middlethorne, ti auguro ogni bene, tua madre”; un sacchetto di caramelle all’eucalipto che aveva rubato a frate Francis; una collana che aveva fatto lui stesso composta da spago, i suoi denti da latte caduti, becchi di passero e piume di ghiandaia – che indossò subito nascondendola sotto la pesante giubba di lana grigia infeltrita – e, infine, una pipa in radica che era appartenuta al signor Temple-Moore, il vecchio custode del parco dell’orfanotrofio, suo unico amico, deceduto l’anno passato.

Miss Coney, la signorina dal lungo vestito blu scuro, scialle in tinta e scarpe di cuoio col tacco, che lo aveva prelevato così inaspettatamente quel mattino, lo aveva squadrato dall’alto in basso con un’espressione di vago disgusto. Lei non amava i bambini e Jay non faceva eccezione. “Salve, Fox. Il mio nome è Coney, miss Coney, per la precisione” si presentò lei tendendogli la mano; nessuno fino ad allora lo aveva mai chiamato “Fox”. Jay rispose al saluto afferrando rozzamente la sua mano fredda e baciandola. “Piacere di conoscerla, miss Coney” disse poi.

Quella lunga giornata era stata una carrellata infinita di luoghi, mezzi di trasporto diretti ad altri luoghi, uffici in edifici alti come il cielo, un continuo camminare, spostarsi, trottare dietro quella donna che, al pari di una macchina, andava avanti senza sosta. Jay non capiva, per quanto si sforzasse, che cosa stavano facendo, solo una cosa gli era stata svelata: erano diretti in un posto chiamato Salburn.

Mancava poco più di un’ora all’arrivo. Miss Coney decise che non poteva più farne a meno: “Alzati” gli intimò con uno sguardo truce “andiamo al vagone ristorante”. Jay, che non mangiava da tutto il giorno e non aveva neppure avuto il tempo di fare colazione, pensò che quella era la prima buona notizia che gli veniva recapitata in tutta la giornata. Attraversarono cinque o sei vagoni semivuoti. Poco prima del vagone ristorante c’era una toilette e miss Coney ci entrò sbattendogli la porta in faccia. Jay rimase ad attenderla nel corridoio, illuminato da una fioca luce fredda e intermittente. Da uno scompartimento lì accanto udiva delle voci in una lingua che non conosceva, il suono di una fisarmonica filtrava attraverso le pesanti tende marroni. Un rumore di passi che si avvicinavano gli fece alzare lo sguardo dal pavimento; una donna in carne dai lunghi capelli castani raccolti in una treccia stava avanzando verso di lui, sembrava allegra, le gote arrossate e un’andatura scanzonata. Gli passò accanto scompigliandogli i capelli ed entrò nello scompartimento di fronte, le voci lì dentro la accolsero con calore pronunciando parole che Jay non capì.

Poco dopo lui e miss Coney stavano seduti al bancone del vagone ristorante, entrambi con un caffè nero davanti. Non servivano altro a quell’ora, aveva detto il robot-barista scandendo le parole. Aveva una specie di televisore installato nel tronco e stavano trasmettendo una partita di calcio della Federazione dei Nani, facevano un sacco di falli, la gente adorava vedere come se le davano durante le partite. Miss Coney fece una smorfia di disprezzo, detestava quello sport, non era nemmeno uno sport, a suo parere. Jay sorbì il suo caffè sperando che i brontolii del suo stomaco si placassero. Si vide riflesso sul vetro che separava il bancone del bar dall’area in cui stazionava il barista: era più pallido del solito, aveva gli occhi infossati e le labbra tese e screpolate; non era il ritratto della salute. Miss Coney si accese una sigaretta dopo averla estratta da un portasigarette argentato che recava un bassorilievo floreale. “Se non le dispiace, miss Coney, io andrei alla toilette”disse Jay; lei assentì col capo, senza guardarlo, mentre un tic nervoso le tormentava un muscolo appena sotto l’occhio.

Il cesso del treno puzzava da vomitare, era angusto, incrostato di sporco in ogni dove, il pavimento bagnato di acqua putrida. La finestra si apriva a stento di un paio di centimetri. Jay salì coi piedi sul gabinetto, tenendosi faticosamente in equilibrio, pisciò e tirò la catena che era una maniglia di ferro arrugginita installata poco sopra la tazza; l’acqua sgorgava e la riempiva sempre più, era intasata da chissà cosa. Jay era inorridito, ma guardava con una certa curiosità quel misto di acqua, carta igienica e deiezioni umane che roteava lentamente cercando uno sfogo esterno; poi estrasse un fiammifero e una sigaretta che aveva sottratto abilmente a miss Coney quando lei era così assorta e piena di sdegno per quei nani che si pigliavano a schiaffi mentre inseguivano un pallone. Se la accese e assaporò il primo tiro, almeno avrebbe avuto meno fame, pensava, mentre il suo sguardo si posava sulla parete di fronte. Era piena di scritte insulse e sovrastata da uno specchio rotto sul quale egli era parzialmente riflesso. Una in particolare attrasse la sua attenzione: “Libertà per i bambini di Salburn!”. La porta vibrò violentemente sotto i colpi di qualcuno dall’altra parte. “Butta quella sigaretta e muoviti, Fox. E’ ora di andare.”

Jay represse un colpo di tosse e si sciacquò il viso alla svelta, poi si guardò allo specchio: i suoi occhi color del ghiaccio erano arrossati dal fumo e dalla stanchezza.

Miss Coney non pareva adirata per il suo comportamento, sembrava non importargliene; lui, del resto, era rimasto un po’ turbato da quella frase che aveva letto poc’anzi. Aveva sempre accettato il suo destino senza fiatare, ma ora si domandava quanto fosse saggio agire così. Il suo pensiero volò al suo coltello a serramanico, sua unica arma, lo tastò, era nella tasca interna della sua giubba, al momento opportuno avrebbe potuto piantarglielo diritto nel cuore e scappare! Ma se avesse fallito? Che cosa poteva aspettarsi allora?

Fu allora che Jay la vide: una pistola dall’aria minacciosa pendeva da una fondina sul fianco di miss Coney; l’aveva intravista sotto il pesante scialle che le copriva il busto. Ciò lo scoraggiò al punto di abbandonare i suoi piani e una stretta morsa di ferro gli strinse le budella mentre seguiva la donna a capo chino, come un rassegnato automa.

Attraversarono i vagoni in fretta e furia per tornare al loro scompartimento, le voci straniere che il bambino aveva udito in precedenza seguitavano a ridere e a intonare canti; dall’altoparlante installato nello scompartimento uscì la voce rauca del capotreno: “Avvisiamo i signori passeggeri che la prossima fermata sarà Salburn. Prepararsi all’arrivo con i bagagli e i documenti”. Miss Coney tirò giù la sua borsa di pelle dagli appositi sostegni per le valigie. Gli averi di Jay, invece, erano tutti nelle sue tasche. Il bambino sudava freddo, se ne stava rigido a fissarsi le punte dei piedi. “Fox,” lo apostrofò lei con un tono che mai aveva udito uscire dalle sue labbra, “non tutto è come sembra, tienilo bene a mente”.

Il treno si fermò stridendo sonoramente. Jay Fox Middlethorne e la signorina Coney scesero dal predellino e penetrarono nella stazione; camionette militari la attorniavano e c’era un fitto viavai di soldati. Il bambino notò che lui e la donna erano gli unici a scendere a quella fermata.

“Come è emaciato questo qui!” sentenziò l’ufficiale addetto al controllo dei documenti, sollevando il volto di Jay con un frustino. “Dovrò farlo comunicare a quei frati straccioni di nutrire come si deve questi ragazzi… Uno così…” continuò con voce melliflua “non dura mezza giornata…”. La donna gli porse i documenti ed egli li scrutò minuziosamente. “Miss Coney, eh?”. “Sissignore.” rispose lei con tono piatto “Non ti ho mai vista qui allo smistamento… Sei nuova?” chiese il militare guardandola fisso “Vengo da Lorraine-Sur, sono stata appena trasferita dopo la mia promozione a reclutatrice distrettuale.” disse lei senza battere ciglio. “Benvenuta a Salburn, buon proseguimento.” L’ufficiale le rese i documenti mimando un lieve inchino “Grazie, graduato Fennec” cinguettò la donna dopo aver letto la targhetta metallica che egli aveva appuntata sul petto.

Jay era sempre più spaventato, camminava a testa bassa cercando di evitare gli sguardi degli astanti e sparendo letteralmente dietro l’esile figura di miss Coney che avanzava cadenzando il passo, i suoi tacchi facevano un ritmico rumore sul selciato. Uscirono dalla stazione e oltrepassarono la tavola calda che a quell’ora era gremita di soldati che schiamazzavano e buttavano giù dosi massicce di whiskey scadente. Uno di loro li avvicinò col passo malfermo dell’ubriaco. “Ehi, bella!” gridò all’indirizzo di miss Coney, lei non si voltò affrettando il passo “…Ehi! Dico a te col marmocchio!” Jay tremava e non osava guardare nella direzione della voce che si era alzata e incrinata dall’impazienza, va bene che miss Coney aveva una pistola, ma quello lì… era un soldato! Chissà quante armi aveva addosso!

La donna camminava spedita e il soldato, divertito, li seguiva ondeggiando e rivolgendole epiteti osceni. Girarono dietro un muro, l’illuminazione in quella zona era quasi assente, il militare trottava con in mente una facile conquista: se il moccioso frignava lo avrebbe pestato a sangue e avrebbe taciuto. Svoltò l’angolo e si preparò a saltarle addosso quando accadde qualcosa che non aveva previsto: lei balzò su di lui! Jay era letteralmente senza parole e per poco non si afflosciò lì per terra come un sacco di patate; miss Coney stava sopra quell’uomo e gli serrava la gola in una morsa brutale senza un’ombra di emozione che le attraversasse il volto. Il soldato era invece incredulo, con gli occhi sbarrati e la voce che gli si strozzava in gola, incapace di ribellarsi o chiedere aiuto. I minuti che passarono Jay si dimenticò pure di respirare. Si scosse al suono della voce della donna “Fox! Aiutami, non c’è tempo!”

Spogliarono il corpo inerte del soldato “E’… E’ morto, miss Coney?” balbettò il bambino mentre gli sfilava l’elmetto semisferico. “Sì, lo è,” tagliò corto lei “Ma adesso l’importante è un’altra cosa…” disse spogliandosi dei suoi abiti in fretta e furia; Jay pensò che gli sarebbe preso un colpo di lì a poco: miss Coney era un uomo! “…Che mantieni la calma, Fox.”  terminò l’ex miss Coney mentre finiva di allacciarsi gli anfibi appartenenti al defunto soldato.

 

Catastrofe annunciata alla G14-Ares

Ypsi K. Luvegg era uno dei tanti aiuti cuoco della stazione spaziale marziana G14-Ares. Erano tre mesi standard che lavorava nella cucina della mensa del personale addetto allo scarico merci del settore 4, e gli sembrava che fosse passato un secolo da quando aveva lasciato la casa paterna sulla Terra, in un sovraffollato condominio dei sobborghi di Houston, Texas. Suo padre, in realtà, era morto da un pezzo; era suo fratello maggiore Luis Fernando a tenere le redini della famiglia con una severità che rasentava i limiti della crudeltà. La madre era vecchia e stanca, sedeva davanti alla TV masticando gomme alla nicotina e bevendo birra, era perennemente in collera, pure quando dormiva imprecava contro chicchessia. Ypsi si muoveva in quell’angusto appartamento in punta di piedi cercando di mimetizzarsi negli squallidi arredi. Invidiava Marika e Tania, le sue due sorelle che, pur essendo due prostitute da quando erano appena adolescenti, almeno se ne erano andate di casa e vivevano in centro, lontano da quel posto grigio e infame.

Ypsi aveva sempre sognato di andarsene. Mollare tutto e tutti e proseguire da solo il cammino della sua vita. Non aveva amici nei sobborghi dove era nato; il suo nome stesso, Ypsi, era stato una condanna dal momento in cui era venuto al mondo e suo padre, ubriaco di vino della più infima qualità, aveva insistito nel chiamarlo come il nome del cavallo sul quale aveva appena puntato 15 dollari, così, per buon auspicio. Peccato che il quadrupede aveva pure perso la gara e il neonato, già nei suoi primi istanti di vita, inspirò quella dannata aria di sconfitta che gli sarebbe rimasta appiccicata addosso come una maledizione.

La sveglia suonò le 4 nella minuscola cabina della stazione spaziale: il turno iniziava tra meno di un’ora. Le pareti di metallo del bugigattolo che Ypsi si era abituato a considerare “casa” erano debolmente illuminate da un tenue neon che si accendeva automaticamente al suono della sveglia. Il turno precedente era terminato meno di sei ore prima. Erano giorni di carenza di personale: tutti gettavano la spugna alla cucina degli scaricatori del settore 4. Lui no. Potrebbe sembrare strano, ma amava quella vita: per la prima volta nella sua esistenza era lui l’artefice del suo destino, o almeno così gli pareva. Si alzò dal letto strisciando fuori dal suo sacco per il sonno e si sfregò il viso con una salvietta umida, lavarsi con l’acqua era un lusso che nessun operaio comune poteva permettersi nella stazione spaziale. Indossò la sua abituale divisa beige e si intrecciò i lunghi capelli castani per poi riporli dentro un berrettino anch’esso beige che recava sul davanti la scritta “Ares Galactic Corp.”.

I lunghi corridoi nel ventre della stazione spaziale G14-Ares erano come grotte di metallo  percorse da cavi, tubazioni, condotti d’aria; era come camminare dentro un immenso apparato cardiocircolatorio costituito di materiali sintetici. A quell’ora erano praticamente deserti, i passi svelti di Ypsi risuonavano nella metallica semioscurità. Incrociò vari robot SPASP, gli spazzini-aspiratori addetti alle pulizie, si salutarono cortesemente. Erano gentili, quei robot, sempre pronti a due chiacchiere nelle pause dal lavoro. Ypsi avvicinò il dorso della mano al lettore di microchip che, dopo un segnale acustico, gli consentì l’accesso al settore 4.

Lara Parmedis, nata nella faccia oscura della Luna, terza figlia di una famiglia greco-cinese, avanzò verso di lui allungandogli la mano per il loro consueto saluto, le batterono sul palmo e sul dorso e poi sulla propria fronte e sul cuore: così si salutavano gli esseri umani. “Sei carico?” disse lei con una smorfia sorridente mentre si avviavano all’entrata del personale. “Come no! Tanto quanto sei ore fa… ” fece Ypsi facendole notare le sue profonde occhiaie. “Mulbert ci ha proprio lasciati nella merda… ” sospirò lei scostandosi dagli occhi una ribelle ciocca bionda che le usciva dal berretto in dotazione per gli aiuti cuoco “anche io dopo questo turno devo riattaccare dopo sei ore”. Ypsi le indicò il distributore di capsule ad alto dosaggio di caffeina con un espressione rassegnata. “Col cavolo che butto via la mia paga per quella roba!” ruggì Lara “lasciamola agli sfigati, andiamo a farci un vero caffè prima che arrivi quello stronzo di Solomon!”.

Ypsi adorava iniziare il turno con Lara Parmedis, lo metteva subito di buon umore! Avevano il loro rituale caffè con la loro personale moka, un cimelio che lei aveva vinto ai dadi utilizzando i suoi poteri psichici, così raccontava; mentre l’enorme cucina era ancora deserta e silenziosa era difficile immaginarla mentre lavorava a pieno regime, talmente caotica che uno perdeva pure la percezione di se stesso mentre schizzava da una parte all’altra sotto le brutali sferzate di Solomon, un cuoco da quattro soldi che esigeva essere chiamato “chef”. Al suono della sirena di inizio turno apparve Bomzi che, sistemandosi il grembiule da lavapiatti, avanzò verso di loro con aria truce. “Ehi, Bomzi!” lo apostrofò Lara: “lo sai che se inverti la B e la Z nel tuo nome, viene Zombi?”. Lo salutava sempre così: rideva e quando Ypsi notava la solita espressione di rassegnato disappunto del nuovo arrivato, scoppiava a ridere anche lui. “Sei proprio originale, Lara… ” replicava lui con un tono talmente risentito da non poter far altro che incrementare l’ilarità. Bomzi Romero aveva un nome buffo, ad ogni modo. E lui lo odiava proprio, il suo nome. Stava risparmiando come un pazzo da qualche anno ormai per potersi pagare un viaggio su Marte, nel suo distretto di competenza, per potersi cambiare finalmente quello stupido appellativo che gli aveva affibbiato quella svitata di sua madre. Aveva già inoltrato la richiesta ormai un anno addietro, lo sapeva che i tempi della burocrazia marziana, specialmente quelli del distretto di Rimandor, erano biblici a dir poco. “Beh, io andrò a pulire le rape prima che arrivi Solomon… ” gemette Ypsi sciacquando le tazzine nel gigantesco lavabo e sistemandole ad asciugare a testa in giù. “Prometeo, invece? E’ in ritardo come al solito?” continuò mentre trafficava con il laccio del grosso sacco in yuta contenente le radici. “Prometeo non viene. Si è tagliato un dito mentre preparava il trito per i soffritti. Secondo me l’ha fatto apposta, si vedeva che aveva bisogno di una pausa” sentenziò Bomzi senza mutare espressione. Anche lui aveva fatto l’ultimo turno sei ore prima ed era visibilmente provato. Lara aveva un’espressione sconcertata: “Fantastico! Quindi oggi siamo solo noi tre! Se lo sapevo me la prendevo eccome una capsula magica!”

Solomon arrivò come un tornado sfoggiando un grembiule nuovo di zecca con scritto a caratteri cubitali: “Simply the Best”. Era già adirato per qualche motivo a loro ignoto, si notava da come gli vibravano i baffi scarlatti. Poco dopo erano tutti al lavoro per i preparativi delle tre colazioni divise in ondate successive che li avrebbero impegnati per le seguenti quattro ore. Gli scaricatori del settore 4 erano numerosissimi: c’erano per  primi quelli che smontavano dal turno notturno, poi quelli dei servizi doganali e infine  quelli che attaccavano alle 7 del mattino; la scelta alimentare era dettata da ciò che i magazzini della stazione spaziale mettevano a disposizione e dall’estro creativo di Solomon che ogni giorno era in vena di nuove sperimentazioni culinarie con le quali tediava i suoi sottoposti.

Bomzi era alle prese con una pila di teglie incrostate di torta di pseudo-carote e rafano quando arrivarono i camerieri, pochi minuti prima che aprisse la mensa. I camerieri erano un gruppo a sé stante che confabulava sempre e si nascondeva nello sgabuzzino dell’aspira-rifiuti per fumare durante i turni. Non erano umani: erano Ukini, una specie aliena proveniente dal pianeta Paruvian; avevano la pelle gialla e sembravano tutti uguali, tutti con una smorfia di superiorità stampata in faccia. L’unico diverso era Kikooji, il più giovane, si distingueva dagli altri perché la sua pelle non aveva ancora completamente virato al giallo dal colorito verde che li caratterizza durante l’infanzia: era giallo-verdino. Gli altri lo schernivano sostenendo che era sottosviluppato per la sua età. Kikooji aveva perennemente un’espressione malinconica. Ypsi sapeva bene cosa significasse essere disprezzato dai propri simili, da coloro che consideri la tua famiglia. Per questo aveva sempre una parola gentile per lui, una fetta di torta appena fatta, un bicchiere di centrifugato di rape del quale la sua gente andava matta. Kikooji lo cercava con lo sguardo e loro si trovavano sempre, avevano un’intesa psichica non indifferente.

Lara spadellava uova al burro e cavallette fritte, Solomon gridava di “muovere il culo con quelle tazze!” a Bomzi che era sudato fradicio e imprecava tra i denti; tre dei camerieri erano spariti e c’erano un mucchio di stoviglie sporche da andare a prendere: “Fumano, quei bastardi musi gialli!” tuonò il cuoco, rosso in viso quasi come il colore dei suoi mustacchi. Dallo sgabuzzino uscì il solito gruppetto insieme ad una nuvola di fumo dileguandosi in mensa alla velocità della luce.

“Oddio! Tra poco arrivano quelli del mattino!” disse Lara sbirciando dall’oblò della cucina la calca di gente che si stava ammucchiando all’entrata della mensa. “E’ pronto l’impasto delle focacce?!” “Sì, chef!” gracchiò Ypsi dopo aver inspirato l’aria bollente del forno che aveva appena aperto per estrarre i muffin ai mirtilli idroponici. “Bene, allora forza con quelle teglie! Parmedis, datti una mossa, aspettiamo tutti te!” .

Alla fine del turno, stremati, i tre colleghi si congedarono con il loro abituale saluto. Lara attaccava subito alla cella frigorifera ed era di pessimo umore. “Tra sei ore ci rivediamo qui, ragazzi.” disse infine inoltrandosi nel corridoio. “Cavoli, sei ore… ” sibilò Ypsi “Se ci fosse Prometeo… o Mulbert… potrei staccare.” “Scordatelo, è già un miracolo se Prometeo non si fa trasferire su un’altra stazione, lui e Solomon non si possono vedere.” “Di questo passo… moriremo.” Ypsi non era affatto ottimista quella mattina.

Quando egli tornò in cabina si sentiva spossato e aveva freddo. Fissò a lungo i pannelli metallici che componevano il soffitto della sua stanza prima di riuscire a prendere sonno. Dormì un sonno agitato e, nemmeno due ore dopo che finalmente si era addormentato, qualcuno bussò alla sua porta. Si alzò in preda ad un inizio di mal di testa, di quelli che non possono far altro che aumentare a meno che non si abbia il tempo materiale per dare modo al corpo di riposarsi. “Ypsi, fammi entrare, è importante!” disse una voce che lui conosceva al punto da capire quanto fosse inconsueta quella visita. “Entra, Kikooji, accomodati”. L’Ukini entrò e rimase in piedi al centro della cabina, con un certo imbarazzo. La sua pelle, verde chiarissimo, pareva azzurrina illuminata dalle luci al neon.”Siamo in pericolo, è terribile…” esordì lui quasi sussurrando. “Come, in pericolo?! Che vuoi dire?!”

“E’ arrivato un carico da Paruvian, il mio pianeta natale” proseguì lui “ho sentito Kejim e gli altri che ne parlavano, avevano paura perché percepivano una presenza, la Sua presenza… e anche io, nonostante non sia in piena sintonia con loro, sento l’avvicinarsi di una enorme catastrofe!” la voce di Kikooji tremava e i suoi occhi neri poi si posarono sul volto di Ypsi “Tu… sei sempre stato gentile con me… se hai qualcuno a cui tieni ti consiglio di avvisarlo e di andarvene da qui, in qualsiasi modo sia possibile. Qui tra poche ore regneranno soltanto il caos… E le mosche. “

Le mosche

Un forte ronzio accolse Lindberg in quella parte di bosco. C’era un odore acre di un’umidità malsana. Si sentiva un gocciolio provenire da chissà dove. Le foglie degli alberi erano scure e pesanti, pendevano mollemente nell’aria stantia. Il sole, fuori dal bosco e dalle sue ombre, era insopportabile, ma lì, dove era finito Lindberg a forza di girovagare in cerca di acqua, c’era qualcosa di sgradevole che gli faceva rimpiangere le precedenti sferzate di luce. Dove fossero gli altri non gli importava, erano testardi, erano pronti a morire di sete piuttosto che avventurarsi nella selva, ma lui no: lui voleva vivere!

Le cortecce erano impregnate di umidità, la gola secca di Lindberg agognava molecole d’acqua. Egli continuava a deglutire e a muoversi circospetto, mentre i suoi occhi saettavano famelici in cerca di una fonte. Sentiva, però, un certo disagio, qualcosa dentro di lui gli diceva che se avesse ceduto alla sete e attinto da quelle gocce invitanti che striavano le fronde cascanti attorno a lui, qualcosa sarebbe andato storto. Quel ronzio insistente lo faceva vacillare, era arrivato al punto di essersi dimenticato come fosse vivere senza quel rumore perforante che gli tediava l’udito. Gli parve che un gatto, un’ombra fugace, gli passasse davanti. Pensò, camminando malfermo, che stava perdendo la ragione. Avrebbe dovuto fidarsi degli occhi della guida Ukini, vibranti di paura: le superstizioni che tanto aveva deriso tra sé mentre si lasciava il gruppo alle spalle e si addentrava nel folto del bosco gli parvero sotto tutt’altra luce. Stava cominciando a crederci. Chi? Lui? Lindberg il pragmatico? Se glielo avessero detto qualche giorno prima, che il suo cervello avrebbe partorito simili pensieri, si sarebbe messo a ridere fino a doversi asciugare le lacrime.

La foresta era sempre più buia e impraticabile, il procedere era difficoltoso, scivoloso; certi fiori che adornavano alcune piante erano meravigliosi, ma con un’aspetto sinistro, fatale. Lindberg non si era mai sentito così smarrito prima di allora. Il suo viso liscio e austero era butterato dalle punture di piccolissime zanzare che infestavano l’aria. Voleva grattarsi, scorticarsi la pelle con le unghie, ma sapeva che non sarebbe servito a niente, anzi, avrebbe pericolosamente ulcerato la sua cute esponendola all’assalto di agenti esterni. Ad un tratto, due maestosi massi emersero dall’intrico dinnanzi a lui. Erano alti almeno cinque o sei metri, coperti di muschi, fronde, arbusti e piccoli fiori viola scuro. Tra loro si apriva un sentiero angusto e coperto da un odoroso pacciame. Lindberg procedeva incespicando, si appoggiò alle rocce che lo circondavano con le mani per non scivolare. Era concentrato, ogni passo era calibrato attentamente, non si azzardava a guardare più avanti di un suo singolo passo. Così ne sarebbe uscito, sì,  ce l’avrebbe fatta, avrebbe ritrovato gli altri e la strada per il campo.

Un urlo di donna esplose all’improvviso. Gridava un nome: “Bert! Bert! Puoi sentirmi, Bert?!”. Lindberg la riconobbe all’istante, non gli pareva vero: era Lysanna Giaromi, la biologa molecolare che faceva parte della sua spedizione. “Bert” era il nome di battesimo del dottor Ormel, il capo del loro gruppo, un uomo severo con un forte senso di responsabilità. Come gli parve dolce il suono stridulo della voce di quella donna!

Lindberg affrettò il passo, per quanto gli fosse possibile, trainato da un impulso che gli faceva sfavillare gli occhi di speranza. Il ronzio persisteva, ma lui non lo sentiva tanto era concentrato a localizzare la fonte di quelle grida sconnesse. Si poteva percepire dal tono della Giaromi una disperazione e un’isteria che non sapeva se sarebbe stato in grado di placare. Urtò violentemente un ramo basso e cadde con un grugnito al suolo. I rami neri, visti da quella prospettiva, parevano arti protesi ad afferrarlo. Un gatto ci camminava sopra con grazia. No, non era possibile, Lindberg si schiaffeggiò forte, le punture di zanzara bruciarono come se ci avesse gettato sopra dell’acido, ma almeno era tornato in sé aggrappandosi al dolore che provava. Poi la vide, la sagoma di quella donna che non aveva sopportato per un attimo dal momento che si erano conosciuti: Lysanna gli parve addirittura bella mentre con gli abiti fradici e un evidente pallore funereo si faceva strada tra un intrico di giunchi brandendo un machete con la forza della disperazione. Lindberg si schiarì la voce e la chiamò. Dalle labbra screpolate non uscì che un belato che lo fece vergognare di se stesso. Lei alzò gli occhi dal sentiero e, quando si posarono su di lui, arsero di un misto di collera e gioia.

Lindberg si sentiva profondamente in colpa. Lei gli aveva appena raccontato come erano andate le cose da quando lui “li aveva mollati come degli stronzi”, non erano andate affatto bene, una sequela di eventi drammatici che avevano portato alla morte e alla dispersione il resto della comitiva della Règia Esplorazione Solmeda, della quale anche lui, Fausto Lindberg, faceva parte insieme ad altri sette membri, più le due guide e tre portatori che si erano trascinati le loro costose attrezzature per le rilevazioni per mezzo pianeta. Aveva visto morire Sammy, il giovane geografo. Un mattino l’avevano trovato al suo posto di guardia, ma non era più lui: era solo un involucro di pelle pieno di mosche, migliaia di piccole mosche che si fregavano avidamente le zampette e ronzavano. Ronzavano così intensamente da far perdere la ragione.

Lysanna intervallava il suo racconto con smorfie orribili, singhiozzava e il suo corpo latteo e fradicio sussultava. Lindberg si chiese se avrebbe dovuto abbracciarla in quel frangente, si chiese anche se lei non lo avrebbe respinto, sembrava attribuirgli tutte le colpe delle tragedie che non smetteva di elencare. Irma Cotton, l’entomologa aliena, era sparita, dispersa nel nulla. Era negli insetti che avrebbero trovato delle risposte a come uscire da quell’inferno, aveva decretato quella donna la notte prima di sparire; la sua faccia ossuta con un naso prominente sul quale fremevano le narici ad ogni sua parola rifulgeva illuminata da una piccola frontale, la frontale del Dott. Ormel, che, come un serio professionista tutto d’un pezzo, asseriva col capo con aria grave.

“Sembrava in crisi mistica quella pazza della Cotton!” bisbigliò infine Lysanna con un mezzo sorriso che si trasformò presto in un singhiozzo. Ormai erano calate le tenebre, il ronzio sembrava essersi affievolito, o forse erano le loro orecchie che si erano abituate. Difficile dirlo. Era troppo umido per accendere un fuoco. La torcia era al limite con la batteria, sarebbe stato saggio accenderla solo in situazioni di emergenza e non per darsi un illusorio conforto. E poi la luce avrebbe attirato nugoli di insetti. Lindberg si passò la mano sulla faccia, sentiva le cunette pulsanti delle punture di insetto che gli invadevano le gote. La Giaromi, lungi dal desiderare il suo conforto, si era assopita con la schiena contro un tronco e il suo respiro era tenue e regolare. Lui rimase solo coi suoi pensieri, le vicende tragiche che lei gli aveva narrato lo avevano reso sgomento lì per lì, ma ora non sapeva, si sentiva distante come se fosse già morto e sepolto da un pezzo. Pensò poi al gatto che aveva intravisto nella foresta e gli venne da piangere. Pianse in silenzio e, mentre copiose lacrime sgorgavano nell’oscurità, si addormentò.

La mattina successiva, Lindberg si svegliò con dei forti dolori in tutto il corpo, non era mai stato peggio, pensò mentre cercava di stirarsi la schiena aggrappandosi ad un ramo d’albero. Lysanna dormiva ancora, in una posizione che lui giudicò innaturale e malsana. Si avvicinò a lei e la scosse un poco, dovevano andarsene di lì, e in fretta. Il capo della Giaromi ciondolò e le ricadde in avanti, sul petto. Fausto tentò di sollevarglielo, ma ben presto si rese conto che era un corpo senza vita quello che si sforzava di rianimare. Il suo viso pallido ora sembrava in pace; le sue palpebre si alzarono all’improvviso rilasciando centinaia di mosche che uscirono dalle cavità oculari in una nube nera e minacciosa.

Egli cadde all’indietro con un grido e annaspò con le gambe prima di riuscire ad alzarsi tanto la paura lo cingeva in una morsa fatale. Non mangiava da giorni, ma il suo corpo pareva infischiarsene di quella debolezza: l’adrenalina che gli montava dentro lo fece correre come un ossesso in una direzione qualsiasi, l’importante era che lo portasse via da lì.

Quando il fiato corto lo obbligò a fermarsi, si rese conto di aver agito senza la minima lucidità. Il machete avrebbe potuto essergli utile per farsi strada nella vegetazione, invece l’aveva lasciato accanto al corpo di Lysanna, dove non sarebbe servito a niente. Il ronzio si era attenuato, almeno così gli parve, mentre il suo udito captava un rumore di acqua, uno scroscio in lontananza. Lindberg camminò per un tempo a lui indefinibile verso quel suono che si faceva via via più chiaro, mentre l’aria si appesantiva: era calda, densa, fili di nebbia strisciavano tra i tronchi come grigi serpenti. Un gatto guizzò davanti a lui, fulmineo. Egli raccolse le ultime forze che aveva e balzò nella sua direzione… voleva prenderlo! La nebbia, che ormai si era fatta fitta, nascondeva alla vista di Lindberg un crepaccio profondissimo nel quale egli precipitò venendo inghiottito dall’oscurità. Non emise nemmeno un gemito mentre, incredulo, si inabissava nelle viscere di un pianeta sconosciuto.

L’acqua lo avvolse e lo fece roteare, era salata, era calda, nera come l’abisso dal quale sgorgava. Fausto Lindberg si preparò a morire, i suoi pensieri non si riuscivano a focalizzare su una cosa precisa, frammenti di frasi, di volti, di suoni affollavano la sua mente sgomenta. Diane era una soldatessa addetta alla sicurezza della loro missione, i suoi capelli castano chiaro erano così luminosi, così vivi, così… La sua voce gli ricordava il suono dell’oboe, una strana voce per una donna, lui la trovava così sensuale… L’acqua lo sbatteva senza pietà, ma il colpo di grazia non arrivava, non ancora. Si chiamava Leopold, il suo gatto, come aveva potuto dimenticarlo? Da bambino, sulla stazione spaziale di Vega IV, lo seguiva nei condotti di aerazione, era impossibile perdersi se si seguiva la scia di Leopold, la sua coda sinuosa disegnava volute nell’aria. Leopold… Possibile che?…

I bambini Ukini hanno pelle verde che poi diventa gialla dopo i primi quindici anni di età. Lindberg aprì gli occhi e si trovò sotto lo sguardo di una miriade di facce verdi dall’aria stupita e divertita. Il cielo indaco del pianeta Paruvian lo folgorò con la sua primordiale bellezza. I suoi piedi erano carezzati dall’acqua di un fiume tiepido.

 

 

 

Flaming Monroe

Nacque da un utero divorato dal cancro, un miracolo a detta di tutti. Tutti poi, chi erano? La ridicola combriccola di sopravvissuti all’ultima, devastante, tempesta di radiazioni. Glenn Otherman, il Vecchio, aveva trentasei anni ed era il più vecchio esemplare umano, a detta loro, in circolazione; Kiku, la bambina cieca era arrivata al loro sgangherato accampamento la sera prima, disidratata e sporca di fuliggine fino al midollo, aveva spiegato la sua situazione con parole infantili e con riferimenti sensoriali parecchio strani e, ad ogni modo, non c’era stato il tempo materiale di preoccuparsi della sua storia dato l’imminente parto di Minnie Monroe, giovinetta, rossa di capelli e dal colorito verdastro, con un utero a puttane da chissà quanto. Edmund Periny era un ragazzino prossimo alla pubertà con un viso rotondo e una bocca carnosa sormontata da una fitta peluria vellutata, aveva occhi grigi duri come pietre e maneggiava la sua Smith&Wesson come uno sceriffo del far west.  Martha Stevenson si improvvisò levatrice. La vocazione le venne lì per lì e seppe che era la cosa giusta da fare, con il suo viso serio e concentrato e le mani insanguinate con le quali si scostava i biondi capelli a spaghetto che le scivolavano davanti agli occhi. Quando Minnie esalò il suo ultimo respiro, poco dopo il primo vagito di lui, Flaming, gli astanti si domandarono chi avesse fatto la parte del fecondatore per quell’ennesimo sciagurato abitante di un pianeta prossimo alla morte. Glenn disse che no, lui l’aveva incontrata circa cinque mesi prima e già lei lo era, in “dolce attesa”.  Edmund si fece una risatina; avrebbe voluto essere lui, il padre, eccome.

Martha fu come una madre per Flaming Monroe. Lei uccise per lui, per il suo dannato latte in polvere, per le sue medicine, per la sua protezione. Poi si puliva il coltello sulla coscia, sulla tela ruvida e color kaki dei pantaloni. Aveva un alone scuro in quel punto, a volte ne rideva. Gli altri presenti all’avvento della sua nascita presero col tempo direzioni diverse. Sicuramente fu di Glenn Otherman che Flaming sentì di più la mancanza, ma non lo disse a nessuno, nemmeno a sé stesso.

Niente saluti, niente cazzate. Martha era coriacea come uno stegosauro, aveva una ruga verticale tra gli occhi che non spariva mai. Il deserto arido era stupendo al tramonto, Flaming glielo vedeva riflesso negli occhi, sapeva che quello era il suo momento preferito della giornata e ne rispettava il silenzio, la sacralità.

Magari avrebbero incontrato qualcuno dei vecchi al prossimo pozzo, magari Glenn, magari avrebbero barattato un po’ di zeolite con dell’acquavite di fior di cactus. Sarebbe andata bene così.