Alla radio parlavano dell’arte e della creatività. Era paragonabile, la creatività artistica, a quella scientifica? Dicevano di sì, lo era senza dubbio. -Del resto i creativi amano interagire tra loro…- concludeva il neurochirurgo per sostenere la sua tesi. Poi il discorso passò a ciò che concerne la creatività animale. Alcuni scimpanzé avevano dipinto dei quadri anni addietro.
-Si poteva notare un gusto estetico, un senso della finitezza dell’opera…
Misi su l’acqua per la pasta tentando di immaginarmi uno scimpanzé-pittore, con il camice e il basco e un certo piglio di impenetrabile concentrazione.
-Gli animali hanno un senso artistico?- domandò il conduttore del programma radiofonico.
-Beh, lasci che le racconti questo aneddoto: un collega giapponese compì un esperimento molto particolare: mostrò alcuni disegni di bambini a un gruppo di volontari che dovevano esaminarli. Avrebbero dovuto fare una semplice selezione tra “belli” e “brutti”. Dopo che essi ebbero operato la loro scelta il dottor Tanue addestrò dei piccioni a riconoscere la differenza tra bello e brutto sottoponendoli, successivamente, allo stesso esperimento. Essi diedero gli stessi risultati dei loro “colleghi” umani.-
Mi stavo domandando in che modo il dottor Tanue, stimato neurologo e comportamentista, avesse addestrato dei piccioni a considerare bella o brutta una cosa, quando squillò il telefono, o meglio, vibrò lo smartphone.
Era un numero sconosciuto, il prefisso era quello di Milano, da giorni ormai tentavano di contattarmi. Io buttavo giù la chiamata regolarmente. -Dannati call center- pensavo.
Quel giorno però un pensiero mi balenò nella mente: -Ma si tratta davvero di un call center? E se fosse qualcosa di importante? Sono molti giorni che tentano di contattarmi, in effetti…-
-Buongiorno, parlo con il signor Giuseppe Esposito?
La voce era quella di una giovane donna, sembrava allegra o fingeva di esserlo. Ma la verità era che io non avevo idea di chi fosse il Giuseppe Esposito di cui parlava.
-Sì, sono io, mi dica- risposi un momento dopo stupendomi al tempo stesso delle mie parole.
-Signor Esposito, la chiamo per informarla che il suo nome è stato selezionato dalla nostra agenzia per partecipare attivamente a un progetto sponsorizzato dalla Lupery-Bertman, azienda leader nella produzione di prodotti farmaceutici per uso veterinario.
-Un progetto di che tipo?
-Ah, spiacente, io non ho di certo i dettagli, di questo verrà informato non appena avrà aderito alla proposta…
-Capisco. E io come dovrei fare per…
-Innanzitutto lei deve sapere che il suo ruolo nel progetto verrà adeguatamente remunerato.
-Beh, mi sembra giusto, ma…
-Le inoltro subito la scheda di partecipazione, mi dà il suo consenso?
-Sì, ma…
-Benissimo, signor Esposito. Le ricordo di compilarla in toto. Non lasci alcuno spazio bianco. Altrimenti la scheda verrà invalidata.
-Me la invierà tramite e-mail?
-No, la spedizione sarà tramite posta ordinaria al suo indirizzo di… Dunque, Via Michele Spistri 17/5?
-Sì, è esatto…- questa volta il mio tono di voce era incerto, l’indirizzo era quello giusto, era il mio. La cosa stava cominciando a divertirmi sempre meno.
Passarono alcune settimane, avevo molte cose da fare in quel periodo, frequentavo l’università di Lettere e avevo un esame molto duro da preparare. Mentre affrontavo la poetica del Dolce Stil Novo sepolto nelle viscere della biblioteca pubblica la mia mente non poteva che trovarsi più lontana dal pensiero della telefonata di qualche settimana prima.
Il pomeriggio di venerdì terminai la riscrittura degli appunti e ciò mi mise di buon umore. Decisi di concedermi una pausa e, dopo aver acquistato un panino con formaggio e melanzane grigliate al bar della biblioteca, mi avviai verso il parco deciso a fare merenda seduto su una panchina, magari gettando qualche briciola di pane alle anatre giù al laghetto.
Stava iniziando la primavera, c’era un venticello che profumava di fiori d’arancio vicino all’entrata sud del parco, quella che dava su Piazza del Monticello.
Indossavo la mia usuale camicia azzurrina e una blusa leggera color indaco. Amavo la primavera perché potevo rispolverare dall’armadio certi vestiti che mi piacevano tanto.
Passai davanti al laghetto delle anatre e notai che non ce n’era nemmeno una. Deluso proseguii fino alla panchina più vicina; si trovava proprio sotto un salice piangente. Nel tragitto incrociai un addetto del parco e gli chiesi che fine avessero fatto le anatre. Egli mi rispose con il tono esasperato di chi ha dovuto rispondere ripetutamente alla stessa domanda.
-Sono state rubate il mese scorso.
-Rubate?!
-Sì, rubate. E ora se vuoi scusarmi ho un mucchio di cose da sbrigare…
Mi sedetti sulla panchina, stringevo il panino tra le mani, ma non avevo più fame. Una sensazione di nausea e disagio mi annodava la bocca dello stomaco. Se fossi riuscito a razionalizzare ciò che provavo probabilmente avrei detto che mi sentivo, in una qualche maniera metafisica, responsabile del furto delle anatre, ma non avrei saputo spiegarne il motivo.
Buttai il panino nella spazzatura con un gesto di stizza e mi diressi verso casa.
Trovai mia madre intenta a passare la lucidatrice. Faceva un baccano infernale e nemmeno mi sentì entrare. La televisione era accesa e trasmetteva, a un volume stratosferico, il telegiornale regionale.
Una donna e suo figlio, che si trovava nel passeggino, erano stati falciati da un pirata della strada strafatto di alcool, hashish, cocaina e metanfetamine e che teneva nel bagagliaio dell’auto un paio di pistole non registrate, due chili di eroina pura al 75% e un computer portatile pieno zeppo di materiale pedo-pornografico. Il fatto che il conducente non avesse il regolare permesso di soggiorno aveva portato il suddetto avvenimento all’attenzione dei media che, pochi minuti dopo l’incidente, avevano già raccolto le dichiarazioni dei parenti della vittima, degli amici intimi e dei vicini di casa. La portinaia singhiozzava in diretta tv.
Strisciai verso la mia camera, la mia nausea non aveva fatto che aumentare, quando intravidi una busta appoggiata sul tavolo bianco della cucina.
Il destinatario altri non era che Giuseppe Esposito. Me la rigirai tra le dita.
-Qualcuno deve aver sbagliato indirizzo…
La voce di mia madre lacerò l’intrecciarsi delle mie fantasie facendomi voltare di scatto.
-A quanto pare…- risposi fiacco mentre lei si dirigeva verso il frigorifero e lo apriva con un gesto vigoroso.
-Hai fame, Momò? Ci sono delle melanzane grigliate che…
Mi chiusi nella mia camera senza lasciarle finire la frase. Cosa avrei dato per abitare da solo! Mi guardai attorno sconsolato e mi diressi alla mia scrivania. Estrassi il tagliacarte da un cassetto e aprii con cautela la busta indirizzata a “me”, Giuseppe Esposito.
Alcuni giorni dopo, doveva essere un martedì, mi trovavo a bere un caffè macchiato della macchinetta nel cortile dell’università. Il cielo era nuvoloso e i piccioni tubavano mostrando al mondo l’eleganza dei loro corteggiamenti. Li guardavo, tanto per far qualcosa, quando il cellulare vibrò e, dopo aver constatato che mi stava chiamando un numero privato, risposi appena prima che scattasse la segreteria.
-Sì? Chi parla?
-Buongiorno, parlo con il signor Esposito?
-Esposito Giuseppe, sono io- dissi con fermezza; ero entrato perfettamente nella parte.
-Abbiamo ricevuto le schede da lei compilate e vorremmo informarla che è entrato a pieno titolo a far parte del nostro programma di ricerca.
-Beh, sono lieto di sentirlo.
-Benissimo. Allora le comunico che lei dovrà presentarsi alle ore 8 di lunedì prossimo, il 15 aprile, allo stabilimento di via J.S. Bach 27 rosso. Ha capito bene?
Ripetei meccanicamente orario, giorno e indirizzo.
-Benissimo- mi rispose il mio interlocutore -Ah, e si ricordi di portare la sua scimmia. È di fondamentale importanza.
Durante il pomeriggio non feci altro che arrovellarmi sulla faccenda della scimmia. In effetti ero stato incauto mentre compilavo il questionario. Alla domanda a risposta multipla “Che animale domestico possiede?” avevo sbarrato la casella “scimmia”. Le altre opzioni erano “cane”, “gatto”, “coniglio” e “cavia peruviana”. L’avevo fatto così, di getto, senza fermarmi a riflettere sulle conseguenze della mia scelta. Sicuramente, avendo potuto scegliere se possedere o meno uno di quegli animali, avrei scelto la scimmia senza pensarci due volte. Già me la vedevo seduta accanto a me a colazione mentre prendeva una banana dal cesto della frutta e faceva una pernacchia a mia madre dopo aver gettato la buccia per terra, sul pavimento appena lavato.
Ora, però, le cose si erano complicate: dovevo procurarmi una scimmia e tra i suddetti animali era di certo la più difficile da reperire.
Terminai la giornata telefonando a tutti i negozi di animali della zona, ma senza successo. Nessuno di loro vendeva scimmie. Una commessa dalla voce saccente mi disse inoltre che “non sapeva nemmeno se fosse legale possederne una”.
La mamma quella sera andava al cinema con Saverio, il suo boyfriend. Mi portai la cena sul tavolino di fronte al divano: spaghetti al tonno piccanti, una specialità che amavo gustarmi in beata solitudine.
Spulciavo siti internet sul mio portatile finché incappai in un annuncio dove si cedeva una scimmia adulta in cambio di una tartaruga di terra.
Mandai giù un grosso boccone di spaghetti e mi grattai il capo facendo mente locale. La fortuna era dalla mia parte: la zia Adela possedeva una tartaruga di terra! Per giunta la teneva in giardino e nessuno si curava di lei, se fosse sparita non se ne sarebbero nemmeno accorti…
Scrissi all’autore dell’annuncio online e mi abbandonai allo schienale del divano. Mi sentivo soddisfatto e fiducioso.
Il giorno dopo mandai le foto di Simon, la tartaruga della zia, che avevo prelevato con facilità proprio quella mattina durante una breve visita, all’indirizzo di posta elettronica di tal Carmelo349.
Lui mi rispose prontamente, era soddisfatto e intenzionato a portare a buon fine lo scambio. Mi mandò una foto di qualità discutibile del volto di quella che era, chiaramente, una scimmia: aveva un’aria davvero derelitta.
Andai a ritirare il pacco all’aeroporto. Era una scatola sigillata con i buchi per l’aria. Non mi chiesero nemmeno il documento per ritirarla. Si vedeva che non vedevano l’ora di sbarazzarsene e presto anch’io capii il perché, poco dopo aver preso posto in un taxi: puzzava in maniera vomitevole. Infatti durante il viaggio sulla tangenziale non riuscii più a trattenermi e vomitai in un sacchetto di carta, di quelli che mettono anche negli aerei, con i quali il previdente autista aveva munito la sua vettura. Quando gli diedi i soldi della corsa gli lessi in faccia che non voleva vedermi mai più.
Mi trascinai verso casa, il pacco era pesante e, mentre salivo le scale del palazzo, sentii distintamente l’ansito di quella disgraziata bestia provenire dalle fessure nel cartone. La cosa mi fece correre un brivido lungo la schiena.
La mamma era fuori a cena con Saverio – Benedetto, Saverio!- pensai per la prima e ultima volta nella mia vita. Portai il pacco in bagno e lo rovesciai nella vasca, mi infilai dei guanti di gomma e feci fuori quasi tutto lo shampoo “per capelli secchi e sfibrati” nel disperato intento di nettare quell’essere terrorizzato che, lanciando strida inenarrabili, tentava di fuggire dibattendosi come un pazzo.
Dopo un po’ si arrese. L’asciugai e lo chiusi in una gabbia che avevo acquistato per l’occasione e nascosto nell’armadio a muro di camera mia. Rassettai il bagno: credo che a mia madre sarebbe venuto un infarto se lo avesse visto in quelle condizioni. L’indomani io e la scimmia avremmo dovuto presentarci allo stabilimento di via Bach. Andai sul poggiolo a fumare una canna per tranquillizzarmi. Rientrai quasi subito in camera mia e presi a sbuffare il fumo nella gabbia della scimmia. Speravo che si calmasse anche lei.
-Te lo sei meritato, vecchio mio.- gli dissi tra una boccata e l’altra.
Quella notte dormii beatamente. Anche la scimmia dormì e fu un sollievo perché mia madre aveva il sonno leggero e temevo che la sentisse mentre grattava le sbarre della gabbia.
Alle 6 ero già in piedi e facevo colazione con latte e cereali al cioccolato. Mia madre fumava accanto alla portafinestra che dava sul balcone, indossava la sua solita vestaglia rosa.
-Ti sei alzato presto…- notò lei sbuffando il fumo verso l’alto.
-Ho da fare all’università…
-Quando torni a casa?
-Non lo so ancora, magari ti chiamo più tardi.
-Sì, bravo, chiamami…
Alle sette meno un quarto io e la scimmia eravamo già a bordo del tram diretto verso la zona industriale. Avevo approntato un’altra scatola di cartone con i buchi, per trasportarla e sottrarla agli sguardi altrui, ad esempio quello di mia madre o dei vicini di casa.
Mentre il mezzo procedeva con l’usuale lentezza fermandosi ripetutamente per accogliere nuovi passeggeri e depositarne altri mi domandai come avrei potuto chiamare la scimmia. Tutti gli animali domestici hanno un nome, dopotutto.
La scimmia era piccola e le mancava un arto. Era abbastanza ripugnante a dire la verità. Era piena di croste negli occhi e sulla schiena e, nonostante le avessi appeso al collo un Arbre Magique, il suo tanfo continuava a insinuarsi nelle mie narici e, come potei constatare da alcuni sguardi, anche in quelle dei miei compagni di viaggio.
La chiamai Handy, in onore della sua mano mancante. Poi mi ritenni soddisfatto e presi a guardare il susseguirsi di palazzi e strade tra i quali brillavano ancora le luminarie notturne; alle 7 e 30 si spensero e ciò mi rese un po’ melanconico. Giungemmo di lì a poco alla zona industriale, il capolinea era in Via Felix Mendelsshon, proprio di fronte all’Ikea. Dovetti fare un pezzo di strada a piedi e mi stupii come in quella zona desolata i nomi delle strade fossero intitolati ad illustri del mondo della musica classica. C’era Via Brahms, Via Wagner e Via Debussy. Le attraversai tutte accompagnato dal respiro affannoso di Handy.
Finalmente, mancavano pochi minuti alle 8, giunsi a destinazione. C’era un solo stabilimento, un parallelepipedo di cemento armato contornato da uno spesso muro, anch’esso di cemento, fornito di telecamere di sicurezza e spuntoni in ferro alla sua sommità. Dall’altra parte della strada c’era l’entrata di un campo Rom. Anch’esso era recintato.
Un uomo in divisa, sembrava un metronotte o qualcosa del genere, sedeva in un gabbiotto proprio a fianco dell’entrata pedonale.
-Sei Esposito?- mi chiese quasi come se fosse un crimine esserlo.
-Sì e lui è Handy- risposi abbozzando un sorriso e sollevando un poco la scatola che mi portavo appresso.
-Che puzza mostruosa! Sparisci!- tagliò corto lui facendomi cenno di entrare alla svelta.
Attraversai il parcheggio, era quasi vuoto. Poi vidi un gruppo di persone che stazionavano davanti ad una porta a vetri. Alcuni avevano cani al guinzaglio, altri portavano i loro animali all’interno di appositi trasportini. Li raggiunsi e posai il pacco con Handy a terra accanto a me. Mi accesi una sigaretta che avevo sottratto dal pacchetto di mia madre. Sperai che l’odore di fumo mascherasse l’odore della scimmia.
C’era un cane, una specie di barboncino color caffellatte con la testa che sembrava quella di Uan di Bimbumbam, si ostinava a gironzolare intorno alla scatola di Handy. Per lui forse quella puzza era qualcosa di paradisiaco, non so. Fatto sta che Handy non gradiva molto la vicinanza di quel cane e prese a gridare in quel modo tremendo che avevo imparato a conoscere mentre gli facevo il bagnetto il giorno prima. Mollai un calcio al cane che si allontanò subito guaendo. La padrona era una tizia in tuta sportiva che pareva una professoressa di educazione fisica. Era l’unica che non teneva il cane legato e mi si avvicinò subito per lamentarsi che l’avessi colpito. Le dissi freddamente che se il mio animale lo avesse morso gli avrebbe potuto attaccare una qualche malattia tropicale e lei si allontanò senza ribattere, ma decidendosi ad agganciare al guinzaglio il collarino bordeaux del suo pupillo.
Passammo tutta la mattina in attesa, davanti a quella maledetta porta a vetri. Alcuni si spazientirono e andarono via. Altri si lamentarono con veemenza, ma rimasero lì.
Finalmente intravedemmo la sagoma di una persona muoversi dietro la porta che poco dopo si aprì.
Comparve la dottoressa Englander la quale aveva lo sguardo più freddo di una sala operatoria. Ci scortò all’interno dell’edificio, un labirinto di corridoi, sale d’attesa con tanto di divani in finta pelle e macchinette del caffè, laboratori e uffici.
Ci divise in gruppi a seconda della specie che possedevamo. Io ero l’unico a possedere una scimmia e mi fu indicata una saletta dove avremmo dovuto, io e Handy, aspettare il nostro turno. Ci chiamavano “binomi”: la persona e il suo animale. Io e Handy eravamo il “binomio P”.
-Sei agitato, Handy?- gli dissi non appena fummo soli.
-Non preoccuparti, vecchio mio, non appena usciti di qui andremo a farci un paio di banane, che ne dici?
Pensai che stavo rincoglionendo, e di brutto anche. Poi mi venne in mente che di lì a poco avrei dovuto dare quell’esame sul Dolce Stil Novo e mi sentii davvero un idiota a trovarmi lì anziché in biblioteca a studiare. Avrei potuto almeno portarmi un libro da leggere, per tenere la mente allenata, per contrastare quell’attesa mortale. Mi avevano assegnato la lettera P, l’ultima della lista rispettivamente a quanti eravamo. Nella saletta dove mi trovavo c’era una pianta sistemata in un bel vaso di ceramica bianco. Ornava un angolo della stanza. La guardai scommettendo con me stesso se fosse vera o posticcia. Poi mi alzai sicuro della mia supposizione per esaminarla da vicino. Come pensavo: era finta, ma fatta dannatamente bene. Mia madre avrebbe fatto carte false per possedere una pianta simile. La luce del pomeriggio, calda e giallognola, entrava dall’unica finestra. Stavo impazzendo per la noia e Handy doveva aver fatto i suoi bisogni nello scatolone. Avevo preso a guardare fuori – la finestra dava proprio sul piazzale dello stabilimento – nella speranza che qualcuno degli altri partecipanti al progetto uscisse e potessi chiedergli qualche informazione in merito, magari anche circa il compenso che avremmo dovuto ricevere al quale nessuno aveva ancora accennato. Il cortile rimase deserto tutto il giorno e ciò contribuì a incrementare il mio sconforto.
-Coraggio, Handy- dissi ad un certo punto sollevando la scatola e avviandomi verso la porta.
-Ne ho abbastanza, ce ne andiamo.
C’era un silenzio a dir poco spettrale, lì dentro. Mi lasciai alle spalle una serie interminabile di corridoi tutti uguali, bianchi con lo zoccolo porpora e il pavimento nero. Ogni tanto una pianta, di solito un ficus, finto, rompeva la monotonia. Presi a sudare, ma non era per la fatica. Una sorta di sesto senso animalesco mi diceva che dovevo uscire da quel luogo, ma non sapevo come né dove. Handy aveva smesso di ansimare e a un certo punto mi fermai per la preoccupazione e aprii la scatola, pur sapendo che non la potevo richiudere senza nastro adesivo. Era morto.
Per lui non c’era più molto da fare: lo appoggiai nel vaso di una pianta, lì accanto. Provavo un forte senso di vuoto, ma il pensiero di dover fuggire mi scosse all’improvviso e iniziai a correre a perdifiato.
Stavo per perdere le speranze quando in lontananza, all’estremità dell’ennesimo corridoio, notai il riverbero azzurrino di una porta a vetri.
Mi scagliai in quella direzione correndo a più non posso e mi ci tuffai letteralmente contro.
Fui sommerso da una forte luce innaturale attraverso la quale misi a fuoco gli occhi gelidi della dottoressa Englander. Mi stava fissando attraverso le sbarre di una gabbia.
-Ben svegliato, Handy. A quanto pare con te l’esperimento ha funzionato.
Tentai di articolare delle parole, ma dalla mia bocca uscì solamente un sommesso gorgoglio. Mi guardai le mani, anzi, la mia unica mano: era bruna, pelosa e coperta di croste.