Il passaggio

Buongiorno a tutti, cari lettori e viaggiatori della vasta Rete!

Come vi sarete accorti, da qualche giorno non siamo più nel 2023, bensì nello sfavillante 2024 con le sue numerologiche promesse di equilibri ritrovati. Con l’anno nuovo i buoni propositi accantonati durante l’anno precedente ritornano come spettri inquieti presentando il conto dell’ennesima annata di procrastinazione, che cosa si può fare per dar loro un po’ di pace? Liste, schemi, wishhhlisstsss?! Ecco, io non ho una ricetta che valga per tutti…però, posso dire, in onestà, che bisognerebbe intanto non pensarci troppo e quando è il momento…agire! Per esempio io mi dicevo ripetutamente – mammamia, da quant’è che non scrivo un racconto!? Dovrei proprio scriverne uno! …Mettermi lì, tranquilla, seduta di fronte al computer, magari ascoltando un disco e chissà che cosa ne vien fuori…

Poi ieri, invece di pensare a ciò che dovrei o non dovrei, mi sono seduta davanti al computer ascoltando un disco di John Carter, una roba pazza, vi assicuro, meraviglioso! L’ho ascoltato su you tube, è una playlist con più dischi, registrati tra l’82 e il 90. Per trovarlo è bene digitare sulla barra di ricerca: “John Carter Roots and Folklore”. Ad ogni modo il racconto che qui segue è il risultato.

E salutando e ringraziando tutti coloro che per volontà o casualità sono capitati in questo piccolo spazio virtuale, vi auguro un felice anno nuovo e…una buona lettura!

Il passaggio

Quel pomeriggio decisi di tirare dritto e di non svoltare all’ultima curva. Abitavo in una zona alta della città. Sulla via del ritorno mi piaceva trascorrere qualche minuto al belvedere, quel panorama non mi stancava mai: la magnifica lastra d’argento del mare, i condomìni stretti gli uni agli altri come sull’orlo di un precipizio,  il vento forte e il sole occultato da una grossa coltre di nubi.

 – Sarà il vento – pensai, – è il vento che mi invita – e, con quella dolce ma ferma spinta alle mie spalle le mie gambe continuarono a camminare; in breve mi ritrovai all’inizio di una strada mattonata che, implacabile, mi chiedeva di iniziare un percorso ascensionale su vie sconosciute. 

Avevo freddo, la giacca primaverile che mi ostinavo a indossare non era adatta a quella stagione – l’inverno era alle porte -, così mi convinsi a imboccare la salita ritenendo che un po’ di moto mi avrebbe scaldato. L’angusta stradina si rivelò sempre più impervia man mano che proseguivo il cammino. In un attimo fui addirittura accaldato e respiravo a fatica: maledissi tutte le sigarette fumate fino ad allora, mi appoggiai a un muretto in pietra che mi lasciò un alone bianco sulla giacca, giocai con alcune foglie di parietaria, mi accesi l’ennesima sigaretta, tossii. Imprecai. Continuai la salita. 

Si stava facendo sera. Le ombre divennero più scure, osservavo i mattoni della pavimentazione scorrere sotto il passo rivelando forme irregolari, sbriciolature, cicche, cartacce, erbe selvatiche a ciuffi; le foglie secche dei lecci che contornavano il cammino frusciavano al vento e si sgretolavano sotto le mie scarpe. Il buio stava aumentando; la città, sempre più in basso, rifulgeva di luci calde e familiari, dinnanzi a me alcuni rami contorti pendevano sulla via, li schivai non troppo agilmente e il mio sguardo fu catturato dalla scalinata in pietra che mi attendeva. – Ormai posso solo andare avanti -, pensavo – poi magari cercherò un autobus o un’altra strada per tornare indietro – mi ripetevo quasi ossessivamente. Mi sentivo così lontano da casa, così fuori rotta, che non avrei nemmeno potuto dire se fossi inquieto o esaltato da quella repentina deviazione dalle mie abitudini. 

Le scale furono interminabili e immerse in un’oscurità blu. Gradini monolitici, cespugli invadenti che parevano divorare la fredda ringhiera in ferro, un pipistrello piroettò sopra la mia testa facendomi poggiare d’istinto una mano sui miei radi capelli. 

Di lì a poco intravidi una luce arancione artificiale che tagliava l’oscurità come un bisturi proiettando un cono di tepore; non che lì facesse più caldo, si trattava di un tepore metafisico. Mi imposi di non accendermi un’altra paglia.

Quel lampione illuminava una porzione di strada sulla quale non avevo mai transitato. Notai una vecchia fermata dell’autobus con una pensilina fatiscente e un bidone della spazzatura coperto di adesivi di varie fogge e colori; li osservai incuriosito mentre riprendevo fiato: ce n’erano alcuni, la maggior parte in effetti, pubblicitari, altri erano loghi di brand che non conoscevo, molti avevano numeri di telefono stampati in piccolo, mi colpì uno fosforescente a forma di disco volante con un alieno che ne usciva suonando una tuba – they’re among us – , diceva con una scritta geometrica anch’essa fosforescente. 

Decisi di fermarmi ad aspettare l’autobus, avrebbe potuto essere una lunga attesa, ma mi ero stancato di scarpinare a vuoto, era sera, ero infreddolito e iniziavo ad avere fame. Mi sedetti su una sporgenza di metallo gelida che un tempo doveva essere stata un sedile. Fantasticai su ciò che avrei fatto una volta tornato a casa, immaginai le mie quattro mura, nient’altro che un appartamentino da scapolo e poi Kida, la gattina siamese, che mi avrebbe guardato con un certo rimprovero nello sguardo: – ti sembra l’ora di tornare a casa? Qui c’è qualcuno che ti aspetta per cena! – mi immaginai i suoi severi occhioni di topazio e sorrisi tra me. Mi accesi una sigaretta e mi strinsi nella giacca che avevo prontamente abbottonato fin sotto la gola. 

La cicca era quasi terminata e mi accingevo a spegnerla, quando la mia attenzione fu catturata da un rumore ritmico che poteva assomigliare al tossicchiare di un vecchio motore. Da dietro la curva apparvero un paio di fari, tenui e traballanti. Non saprei spiegarmi il perché lo feci, ma quasi mi lanciai in mezzo alla strada per fermare il conduttore di quel veicolo. Egli mi si accostò. Guidava un’apecar che aveva visto molte primavere. Anche il conducente doveva arverne viste molte, come me del resto. Era un ometto secco e dalla pelle color cuoio con un berretto blu scuro calato quasi fin sugli occhi che brillavano di una certa giocosità. – Buonasera, – dissi, e per un momento non seppi come proseguire. – Buonasera a lei, tira un bel vento da queste parti, eh? – ribattè lui con quegli occhi birichini che sfavillavano tra le sue palpebre rugose. – Ecco, sì, un bel vento… – feci io, – Senta, ma dove si va per questa strada? Temo di essermi perso. – Ha ben voglia ad aspettare la corriera – mi rispose lui indicando la fermata – cinquant’anni che vivo qui e non l’ho mai vista passare una volta! Nemmeno una, le dico! -; mi voltai anch’io in direzione della fermata: in effetti non prometteva niente di buono, poi, fulmineo, un ratto si arrampicò sopra la pensilina, discendendo dalla parte opposta, sul tronco di un albero. 

– Se vuole, le posso dare un passaggio qui sopra, ma dovrà viaggiare nel cassone sul retro, qui dentro stiamo già stretti io e la mia Berta. Che dice, vuol montar su? 

Solo in quel momento mi resi conto che il vegliardo divideva l’angusto abitacolo con un pastore tedesco che avrà avuto la sua stessa età. Stava seduta immobile sul sedile del passeggero e credo non le si fosse mosso un baffo per tutto il nostro incontro. 

– D’accordo. – dissi infine, quasi senza pensare. – Allora, in carrozza! – gioì divertito il vecchio incalzandomi a gesti – Ce la fa a salire? …Ecco, sì, perfetto ora non le resta che mettere su l’altra gamba!

Partimmo. Mi ranicchiai dalla parte opposta di una grossa valigia nera. L’aria era frizzante e il vento impetuoso mi scompigliò i capelli, mi reggevo con le mani al gelido metallo e pregai che la nostra traversata avesse presto una fine. La strada era deserta, ogni tanto un lampione gettava le sue luci e le sue ombre, grossi alberi si sporgevano oltre gli sgangherati guardrail. Mi appoggiai con la schiena all’abitacolo e, alzato lo sguardo, mi beai della volta celeste che si intravedeva tra le scure fronde. Mi persi con la mente in quegli istanti, aggrappandomi ai lumini solitari degli astri, finché l’apecar si fermò, eravamo ritornati tra le case. Il mio “cocchiere” scese e mi tese la mano – Ecco, venga, l’aiuto a scendere,- disse allegro, – ora – continuò indicandomi una scalinata illuminata da una luce quasi accecante – non le resta che scendere giù da quelle scale, vedrà che ci si ritroverà -. 

Ringraziai goffamente riassettandomi la giacca, mi presentai, ci stringemmo la mano. – Spero che la mia tuba non le abbia arrecato fastidio durante il viaggio, è uno strumento ingombrante, lo riconosco… – asserì poi indicando con un cenno del capo la grossa valigia nera con cui avevo diviso lo spazio durante il tragitto. – Ma no, s’immagini, anzi, ancora grazie del passaggio – dissi infine e, dopo un ultimo cenno di saluto, mi incamminai verso casa. 

Un libro: “Una cosa divertente che non farò mai più”

Ho fatto la mia conoscenza con questo scrittore straordinario, David Foster Wallace, un dì che facevo una delle mie sortite alla biblioteca di Castelnovo ne’ Monti. Mi aggiravo tra gli scaffali e fui attirata da un’edizione Einaudi con un titolo accattivante: “Brevi interviste con uomini schifosi”. Mi calamitò, e nelle settimane che seguirono mi addentrai nella sua lettura. Ora, sono passati un po’ di anni, e quello che mi rimane di quel libro è più che altro una sensazione: ricordo che pensai chiaramente che David Foster Wallace fosse un dannato drago della scrittura e, cosa che mi fece risentire un pochino, che con la sua bravura era capace di direzionare i sentimenti del lettore con la stessa facilità di qualcuno che sta facendo un forsennato zapping in tv. Un potere che, a mio parere, esercitava in quel libro con un cinismo raggelante. 

Detto questo la mia opinione su Wallace diventò circospetta se non addirittura guardinga… della serie, “occhei, sei in gamba, ma non mi dribblare il cervello a ‘sto modo che mi fai sentire, più che un essere umano, un miserabile ammasso di gelatina senziente.” 

Poi un mese fa dovevo farmi un bel viaggetto in treno, qualche ora o giù di lì di Pianura Padana e non stavo nella pelle perché avrei potuto alienarmi nelle pagine di un qualche buon libro. E mi capitò proprio il caro vecchio David con “Una cosa divertente che non farò mai più”. L’editore è Minimumfax e pubblicò questo testo la prima volta nel 1998 con la prefazione di Fernanda Pivano che presentava l’autore americano per la prima volta all’ignaro pubblico italiano. Da quel momento in poi David Foster Wallace approdò ai lidi letterari europei e certamente nell’Olimpo della letteratura contemporanea di cui è stato (ed è tuttora) esponente intelligente e spietato fino alla sua prematura scomparsa nel giugno 2007. 

“Una cosa divertente che non farò mai più” è un particolarissimo reportage della sua esperienza di sette giorni su una crociera extralusso ai Caraibi. A questo proposito venne inviato laggiù dalla rivista Harper’s. Wallace è poco più che trentenne, osservatore chirurgico e ossessivo; non si risparmia, si getta a capofitto nel clima irreale di questo viaggio organizzato, partecipando ad attività, dialogando con persone, riportandoci questo insano viaggio con il suo sguardo fine ed ironico. Questo autore ha un talento spiccato per riconoscere e raccontare la decadenza. Il risultato è un godibilissimo libro di nemmeno 150 pagine che, grazie al suo stile mai banale, delinea gli avvenimenti affiancandoli con riflessioni e aneddoti personali che difficilmente lasciano indifferenti (nel senso che qualche sonoro schiaffone lo tirano, ma ci sta tutto, bisogna accettarlo). L’ho trovato un testo onesto, divertente, malinconico e forse un po’ preoccupante. Ad ogni modo rappresenta senz’altro un tassello significativo per la conoscenza di ciò che è il dannato essere umano (per chi volesse ulteriori conferme…).

Un libro: “In viaggio con Erodoto”

È iniziato l’anno 2023, e gennaio è il mese che ci vede gestanti di nuovi progetti, propositi, impulsi alla rinascita. Si accumulano energie in potenza che sfoceranno al di fuori nel resto dell’anno, il dove non è sempre prevedibile, almeno per me. Ma penso che sia necessario non costringersi in una forma precisa e lasciarsi la libertà di mutare, senza porsi troppi freni: si va dove si va e si accoglie l’imprevedibile.

Ryszard Kapuściński, reporter, scrittore e curiosissimo essere umano, ha imparato con gli anni a confrontarsi con l’imprevedibile e a godere dei suoi doni. Nel suo libro, “In viaggio con Erodoto”, ci racconta come ebbe inizio la sua carriera di reporter, quando a Varsavia scriveva per lo Sztandar Młodych e accarezzava il sogno, per non dire l’ossessione, di voler “varcare la frontiera”, qualsiasi essa fosse. L’occasione gli si presentò quando il giornale gli diede il suo primo incarico come corrispondente estero, destinazione: India. La sua capo redattrice gli donò un libro prima della sua partenza, si trattava di “Storie” di Erodoto, un testo che, tra le opere giunte fino ai giorni nostri, può essere considerato come il primo reportage della storia dell’umanità.

Di Erodoto non si sa molto, nacque ad Alicarnasso (prima greca, ora turca con il nome di Bodrum) nel 484 a.C. e morì a Thurii nel 425 a.C.; proveniente da una famiglia aristocratica per parte greca e parte asiatica, già in giovane età si vide forzato all’esilio dalla città natia per attriti tra il tiranno che la governava e lo zio; lo spostamento, seppur obbligato, contribuì al suo arricchimento linguistico e umano. Alla caduta del tiranno che aveva scacciato la sua famiglia egli potè ad ogni modo fare ritorno in patria, ma il desiderio di conoscenza che era germogliato in lui lo vide partire di nuovo.

Vagare per il Mediterraneo approdando ad Atene, poi in Egitto e alla fine della sua vita in Magna Grecia, in una città che non esiste più, ma che si situava vicino all’attuale Sibari (Sybaris) nel golfo di Taranto, gli permise un approccio di rara apertura alle altre culture, che fossero elleniche o barbare.

Erodoto, come Ryszard Kapuściński, è un uomo affamato di conoscere le vicende umane, di ascoltare le voci dei popoli. Sa che alcuni racconti sono più plausibili di altri: molte storie hanno più sostenitori, altre giusto una manciata; le versioni cambiano a seconda di chi le narra e trovare la verità è cosa quasi impossibile, ma la storia umana, consta anche di questo: l’uomo funziona così, è un essere fatto di storie più che di carne.

Nelle pagine di “In viaggio con Erodoto” l’autore ci guida in alcuni suoi reportage, ci porta in India, in Cina, in Iran, in Algeria, in Tanzania e altri luoghi; intercala i suoi aneddoti di viaggio con brani tratti da “Storie” creando un senso di vicinanza con un passato per noi remotissimo, ma che ci appare in un certo senso vicino. Viene disegnato un mondo dove i popoli, persone come noi in preda alle loro passioni e necessità dovevano fare i conti con la durezza della vita e con una violenza che può apparirci intollerabile, ma che è propria della nostra storia e anche del nostro presente. Ma ciò nonostante… l’essere umano continua a raccontare, a raccontarsi e a ridefinirsi. A demolire confini e a costruirne altri per poi varcarli inseguendo le sue motivazioni.

Kapuściński ci conduce con grazia attraverso la sua storia e il suo viaggio; non possiamo far altro che sederci accanto a lui, nella veranda della sua stanza in affitto, sull’isola di Gorée, lottando contro nugoli di zanzare e insetti attirati dalla lanterna serale per poter leggere un’altra riga di “Storie” e agognare al prossimo viaggio.

Ipertreno

Con una mano stringeva l’apertura della borsa. Il paesaggio scorreva fuori dal finestrino, ma lei non lo guardava. Sapeva che si trattava di un filmato ultradefinito proiettato per rilassare i passeggeri dell’ipertreno e non amava sottoporsi a quel tipo di menzogne. 

Una famiglia occupava il gruppo di sedili accanto. Il figlio maggiore avrà avuto sì e no quindici anni. Di certo non aveva memoria di ciò che veniva proiettato nel filmato, era nato già lì; forse quelli non erano nemmeno i suoi genitori, magari era uno di quei bambini delle “gestazioni meccaniche sperimentali” che venivano affidati ai geneticamente deficitari. Pareva stesse dormendo, ma era semplicemente assorto nei suoi pensieri; – uccidere il padre -, avrebbe detto qualcuno, ma non erano così chiari, erano un labirinto di passaggi che l’avrebbero condotto a un’emancipazione. 

“Che pianeta, Lanor!”. Lo diceva la pubblicità sulle brochure che venivano scaricate a chili all’ingresso dei condomìni sovraffollati nella vecchia Terra, agganciavano le speranze e le riplasmavano in forma di viaggio interstellare. 

Una donna avanti con l’età si compiaceva con sé stessa per aver compiuto quel passo, ma intanto il suo chiodo fisso era ancora quello di ambientarsi. Il marito aveva ottenuto un posto di guardiano nel museo di Archeologia Lunare. Lei aspirava a un impiego di governante in una famiglia con una posizione. 

Poco più in là una ragazza si raccontava bugie per tirare avanti. L’altoparlante annunciò la stazione successiva e lei si scosse aggrappandosi al suo modesto bagaglio; stavano arrivando a “Le Miniere”. La voce metallica continuò elencando le bellezze minerali di Lanor. Gli omicidi, così continuava il messaggio, erano diminuiti nell’ultimo anno del 100%. I suicidi invece erano in aumento vertiginoso, ma questo dato non veniva menzionato. La ragazza era stata esonerata dalla procreazione e la sera prima aveva brindato alla notizia con alcuni coetanei che aveva incontrato ai colloqui conoscitivi che organizzava l’anagrafe, sezione “Nuovi Cittadini”. In particolare una sua conoscente le aveva detto che “doveva ritenersi fortunata” dato che lei era obbligata a “sentirsi fortunata” per tutte quelle gestazioni che le squassavano il ventre. – Vedi -, le diceva in tono confidenziale indicandosi la frangetta brizzolata, – prima i miei capelli erano tutti neri e tra un mese ho un’altra inseminazione -; solo, era difficile accettare una vita senza obiettivi biologici, pensava la ragazza con lo sguardo incollato ai finestrini. Il filmato era ricominciato dall’inizio. 

L’uomo anziano che era salito alla fermata “Vecchio Spazioporto” era di certo uno dei primi ad essere approdati su Lanor. Ricordava il pianeta natio meglio di altri; la sua memoria era però edulcorata dal ricordo di quella che pensava fosse stata un’infanzia felice: la piscina di quartiere, le canzoni sulla navetta che portava lui e altri ragazzi alla mensa sopraelevata dove poteva vedere lei, la ragazza asiatica che invece non era partita. All’epoca era un giovanotto robusto con la fronte riccioluta e gli occhi umidi. Il nome: l’unica informazione che fosse mai riuscito a carpirle. Lo conservava ancora dentro di sé, dove erano entrambi immortali e sospesi nel tempo. 

Il capolinea si avvicinava e l’ipertreno si svuotava.

Due uomini malvestiti parlottavano tra loro. Erano due manutentori, avevano le mani e i visi sporchi di grasso sintetico. Uno diceva: – se fossi stato in te…-, e l’altro faceva: – se fossi vent’anni più giovane, forse… -, – Non potrei sopportarlo -,  – ma no, ma no… Ci si abitua a tutto… -. Si era iscritto al programma di “mutilazione volontaria”, ne aveva abbastanza di quella vita, si sarebbe trasferito in un Resort per mutilati. 

Sui finestrini iniziarono a scorrere alcune réclame. 

Qualcuno già ponderava di trasferirsi su un altro pianeta.

Il signor Keane

Piccola premessa: non avevo in programma di pubblicare così, oggi stesso, questo racconto che ho scritto oramai quattro anni fa. Ma quando ho visto la foto di quella macchina, mi ha portato proprio lì, in un luogo che avevo immaginato. E quindi ecco qui, dopo un po’ di sana fermentazione nell’hard disk un racconto di sicuro un po’ acerbo, ma a cui voglio molto bene. Buona lettura!

Ps. La foto in questione è visibile sul mio profilo IG @imac_obcy nella sezione “Epiphanies” delle storie in evidenza.

Il signor Keane

Da quando Laszlo Rospov non era più passato di lì, qualcosa era scomparso dai suoi pensieri. La vita andava verso altre direzioni: un po’ a destra, un po’ a sinistra. Non stava ferma. Lui aveva terminato un lungo periodo di apprendistato in una gelateria italiana, giù in centro, ed ora era stato assunto come apprendista gelataio in un’altra gelateria: “Da Artusi”. Si trovava bene? Aveva smesso di chiederselo. Aveva chiuso con un certo genere di domande. Era convinto che fosse il tormentarsi con certi tipi di domande a far venire il cancro. Non le sigarette, non il wi-fi o l’elettromagnetismo. Era un certo genere di domande che l’uomo poneva a sé stesso o, ancor peggio, discuteva con altri facendole oggetto di dibattito. Ecco, quella parola, quella sì che gli faceva venire un brivido di ribrezzo. La metropolitana si fermò fischiando alla stazione di Church Avenue che non si trovava sottoterra. Rospov sgusciò tra un paio di passeggeri che si scostarono malvolentieri. L’aria autunnale gli accarezzò il viso. C’era un odore dolciastro di crema anti-età. Infatti, un’anziana procedeva sul marciapiede dinnanzi a lui, andava nella sua stessa direzione, avanzava con cautela. Ella evitò con destrezza un mendicante senza le gambe che stava seduto a terra e porgeva il piatto ai passanti. Rospov infine la sorpassò ma, cosa che lo lasciò sorpreso, quell’odore non proveniva da lei: era come svanito nel nulla. L’anziana incrociò il suo sguardo quando la squadrò un’ultima volta prima di attraversare la strada. Gli occhi di lei erano due laghi ghiacciati con un’ombra grigia sotto. 

Essere un apprendista gelataio era un ottimo modo per lasciarsi alle spalle quell’idilliaca immagine dell’”omino dei gelati” che va in giro con il carretto per i quartieri a fare felici i bambini. Era più un mestiere che poteva assomigliare al chimico, ma con molta meno poesia. Poi c’erano i festivi e le ore di punta, quando lo mettevano a servire al banco quei meravigliosi impasti che preparava sul retro riempiendo delle specie di betoniere con latte, zucchero e polveri colorate. Gli avventori sembravano stanchi e senza vita. O era lui stesso ad esserlo? Ecco, un’altra domanda che era meglio lasciar perdere… 

Poi, un giorno un’auto color amaranto parcheggiò davanti alla gelateria. Era un’automobile vecchia, ma ben tenuta. Gli ricordava qualcosa che tra un cono alla crema e qualche coppetta bigusto non riusciva a contestualizzare. Tornava a casa la sera tardi e preferiva farla a piedi, il vento si era fatto freddo e alcune foglie graffiavano debolmente il selciato. Sentì un rumore alle sue spalle e poco dopo un’auto, quell’auto, gli passò accanto. Un rumore per niente estraneo. Un odore pungente di gasolio. Quand’era bambino e i suoi erano ancora vivi, abitavano in una casetta con giardino in un quartiere pieno di casette così. Non amava ricordare quel periodo felice principalmente perché non sarebbe mai più ritornato e questo fatto gli faceva montare dentro una tetra malinconia. Era difficile, però, dimenticarsi del signor Keane e della sua auto amaranto che teneva parcheggiata davanti alla sua abitazione. Il signor Keane era un veterano di guerra e aveva perso un occhio durante un’incursione in territorio nemico, un proiettile era rimbalzato e lo aveva colpito proprio lì; per questo motivo gli era stata ritirata la patente di guida ed egli aveva dovuto smettere di condurre la sua amata automobile. Spesso Rospov si era chiesto in che modo, esattamente, i proiettili rimbalzassero. Aveva ascoltato quella storia molte volte seduto accanto all’ex-soldato sul sedile anteriore della sua auto parcheggiata; il signor Keane doveva dire la verità, non cambiava mai versione. Ad un certo punto diceva che “aveva visto rosso e la paura lo aveva aggredito prendendo possesso di tutto il suo corpo”; era per questo che da quel punto in poi non ricordava più molto di ciò che accadde; e poi erano passati tanti anni.

Rospov ricordò che quell’auto fu indubbiamente la prima che lui mise in moto, da solo, sotto la supervisione del vicino di casa. Ed ecco che quell’odore di gasolio bruciato iniziò a far breccia nei suoi pensieri. “Ce l’hai fatta, Laz!” aveva gioito il signor Keane, era l’unico a chiamarlo a quel modo.

La gelateria Artusi stava all’angolo tra Indipendence Road e Postbury Lane. Il proprietario, un cinese di mezza età che si faceva chiamare Signor Po ostentava sempre una certa calma, ma Rospov sapeva benissimo che gli rodeva per come giravano bene gli affari alla gelateria di Kotterton Avenue, che si trovava a nemmeno cinquecento metri da lì. Era stato assunto un aiutante. Ora la gelateria non chiudeva praticamente mai. 

Fu una certa mattina, era passato del tempo e per la strada alcuni operai stavano mettendo su gli addobbi di Natale, che Rospov si mise a camminare senza meta. Era una bella sensazione avere la giornata libera. C’era quel tipo di aria che presagisce la neve, cosa rara in quella città, ma non impossibile. Si fermò in un caffè a bere un bicchiere di latte caldo, lo sorbì lentamente, osservando attraverso i vetri il viavai della strada. Poi si pulì le labbra e continuò con la sua passeggiata. Il quartiere dove era cresciuto era più o meno come una volta, solo un po’ più triste, era invecchiato male. All’improvviso si ricordò di quando non prendeva la metropolitana per andare al lavoro, la tratta in superficie fino a Church Avenue era stata inaugurata qualche anno prima. Di solito andava a piedi, per cui doveva svegliarsi almeno un’ora prima. Passava su quel ponte, White Bridge. Ora, da dove si trovava poteva vederlo distintamente, era vicino e sovrastava il vecchio quartiere. E da lì, ogni mattina, la vedeva: la vecchia automobile del signor Keane parcheggiata allo stesso identico posto da almeno trent’anni. Come aveva fatto a dimenticarsene? Poi, d’un tratto, le fu davanti. Aveva le gomme a terra, erano scolorite, piene di venature come le gote flosce di una vecchia. Alcune foglie erano come appollaiate sui tergicristalli. 

Il signor Keane doveva aver smesso di badarci così come faceva un tempo. Anche se non la guidava più, la puliva, la accendeva, ci faceva un poco di gasolio andando a piedi con la tanica al distributore a un paio di isolati di distanza. Rospov guardò quell’auto con tenerezza. Non somigliava affatto a quella che mesi addietro si era fermata davanti alla gelateria Artusi né tantomeno a quella che gli era sfrecciata accanto nella notte.

“Laszlo? Sei proprio tu?” 

Una voce familiare lo fece voltare di scatto; una donna anziana con un abito nero e il trucco sbavato dalle lacrime gli si avvicinò malferma traballando su dei tacchi a spillo. Era la signora Keane. Rospov non riuscì a parlare, preferiva il silenzio alle parole. La donna si appoggiò al cofano e si accese una sigaretta, poi gliene offrì una, lui accettò. Fumarono mentre lei con una mano accarezzava la carrozzeria malconcia dell’automobile. Quando finirono la sigaretta sembrava non ci fosse più molto da fare, o da dire. Si guardarono negli occhi e lei abbozzò un sorriso. 

Epiphany

Buongiorno, amici lettori e lettrici, buon anno!

Epiphany in literature refers generally to a visionary moment when a character has a sudden insight or realization that changes their understanding of themselves or their comprehension of the world.”(Wikipedia)

L’“Epifania” in letteratura si riferisce a quei momenti visionari nei quali un personaggio percepisce una comprensione profonda ed essenziale della realtà che può influenzare l’interpretazione della stessa e di sé. 

L’anno scorso ho fondato un club di lettura con alcune amiche. Si chiama Homonoia Book Club. Homonoia è una parola greca che significa “unità di intenti, unione di cuori”; il primo libro che abbiamo letto insieme è stato per l’appunto “Gita al faro”. Un libro che non ha tardato a lasciare un’impronta su di noi lettrici. É passato quasi un anno e altri libri sono stati letti, ma questo rimane per me il più significativo. Non dico “il più godibile”, perché non si tratta certo di un libro di intrattenimento, ma di un’opera che trasmette la sua grandezza stilistica e di pensiero. Un’opera viva che tutt’ora ha molto da dire su di noi esseri umani. Ci parla del tempo che passa, delle nostre percezioni sulle quali costruiamo il nostro personale modello di realtà o in base alle quali possiamo tradurre la realtà e orientarci in essa. E poi ci parla anche del rapporto con l’altro, nel quale si estrinseca il confronto tra visioni differenti, a volte perfino antagoniste. 

“Gita al faro” è un libro breve. Ma è spesso. Ha un peso specifico molto elevato. 

Il termine “epiphany” in letteratura è affiancato alla figura di James Joyce. Ma si presenta in un modo analogo in Virginia Woolf con quelli che vengono chiamati “moments of being”, i cosiddetti “momenti dell’essere”. 

Personalmente lo trovo un modo molto realistico di rappresentare l’essere umano. 

Penso a quanti momenti di comprensione, di lucidità anche, ho avuto durante la vita. Penso: quanti ne verranno in futuro? Mi affaccerò ancora da quello spiraglio? 

Mi chiedo inoltre quali condizioni siano necessarie al verificarsi di questo fenomeno. 

Mi viene in mente una frase inglese: “no pain, no gain”. 

Qualche giorno fa era l’Epifania, e mi sono ritornati su tutti insieme ricordi d’infanzia di una serenità quasi surreale, ma è oggi, dopo molto tempo passato a sciogliere altre matasse, che mi ritrovo qui in questo porto sicuro. Sul mio “rettilineo” che mi pare un po’ una pista di decollo.

Volendo utilizzare la metafora dell’aereo, del volo pindarico e del mondo come mappa da percorrere e tracciare vorrei condurre voi lettori attraverso un’altra avventura: un percorso dove il raccontare storie e la rappresentazione pittorica si alternano e si compenetrano. 

We’ll see. 

Buone epifanie a tutti! 😉 e alla prossima …magari “on the road”!

Microstoria #006 (18-11-2021)

Un giorno di sole, aveva detto, sarà un giorno di sole. Plonique si teneva stretto quelle parole e risaliva la vallata aggrappandosi con le mani ai tronchi umidi dei carpini. La nebbia si stava alzando. Il fiume era lontano ormai, il suo mormorio regolare era scomparso. Come era scuro il bosco, come odorava di terra nera! Aveva tanto desiderato che il sole tornasse, ma ora, mentre ne intravedeva il riverbero baciare le fronde più alte di alcuni alberi, non ne era più molto sicuro. Glielo aveva detto la vecchia Zoe – quella che per lui era stata più di una madre -, sarebbe stato quello il giorno che avrebbe scelto per andarsene. -Andare? Andare dove?- le aveva risposto lui preoccupato, era un bambino allora, conosceva solo il grigiore e la nebbia. Ma ora che era diventato un uomo sapeva.

Malediceva le sue gambe troppo lente e il suo fiato corto. Doveva fare presto! Presto! 

La radura era proprio come la ricordava. Il fico era cresciuto e pendeva da un lato in un modo che lo faceva sembrare stanco e prostrato dall’età. Le imposte gialle della casa in pietra erano socchiuse. La luce era accecante e l’erba di un colore così verde che gli fece venire le vertigini. Si fermò a guardarsi intorno meravigliato. Una poiana volteggiava in cielo, tracciava cerchi nell’azzurro. E mentre Plonique si schermava gli occhi velati dalla commozione seppe che era nuovamente il momento del congedo. 

Qualcosa di lieve si adagiò delicata sul suo cuore. 

Microstoria #005 (21-10-2020)

-Lupi-, aveva detto Overon che apriva la strada. -Con questo freddo sono scesi più a valle…- continuò indicando le pendici boscose delle montagne con un gesto vago. Io, dopo tutti quei giorni di cammino, non avevo più le forze per preoccuparmi dei predatori. -Non c’è da preoccuparsi- tagliò corto la nostra guida rimettendosi in marcia a passo deciso, -c’è molta selvaggina qui… ce la caveremo piazzando i turni di guardia al carro con le vettovaglie, non possiamo permetterci di restare senza cibo, ci rallenterebbe o peggio.

Camminavamo in fila indiana, Overon sempre in testa, poi Grinfie d’Osso, il suo braccio destro di origine indigena; a seguire il giovane Flauto che era con noi quasi per caso, poi c’ero io che a stento riuscivo a pensare a qualcosa di diverso dal mettere un piede davanti all’altro e proseguire così. Dietro di me il vecchio Foglia d’Oro, il mio mentore, arrancava senza un lamento, ma io sapevo che era ferito al ventre nonostante lo avrebbe nascosto fino alla fine. Il carro chiudeva la nostra processione, sobbalzava sulla strada sconnessa trainato da un mulo e da una cavalla nera di nome Ghila; le loro briglie erano tenute saldamente da Landina De Verri, una contessa decaduta, ultima di una stirpe di spendaccioni impenitenti dei quali conservava giusto l’attitudine al scialacquare denaro. Dove stavamo andando? Immaginavo che ce lo stessimo chiedendo tutti nel profondo di noi stessi. Il bosco di abeti ci accolse e con esso il canto di un uccello che mi scaldò il cuore. C’era ancora chi fosse disposto a cantare in quelle terre! 

Microstoria #004 (13-11-2018)

Il ronzino di Taddeus era nervoso. Quando avevano attraversato la prateria umida, guadando innumerevoli pozze di fango e essendo costantemente assediati da nugoli di mosche, l’animale aveva iniziato a frustare duramente l’aria con la coda e, di tanto in tanto, scuotere energicamente la testa e sbuffare con fare alterato. Anche Belle, la sua vecchia cavalla, si era mostrata infastidita dagli insetti, ma lo aveva dimostrato con la sua solita flemma agitando pigramente il capo e facendo tintinnare i finimenti consunti. 

Da quando si erano addentrati nel bosco il sole pareva essersi nascosto dietro gli alberi, faceva capolino raramente, squarciando le ombre con fasci di luce che proiettavano le aguzze ombre delle foglie pendule. L’autunno era ormai inoltrato, un tappeto di fogliame color bronzo li accoglieva sempre più nel ventre della foresta. Tutto taceva. I tonfi ritmati dei passi dei cavalli, intervallati dagli sbuffi di Amèth, che Taddeus cercava di calmare schioccando un poco la lingua e dandogli qualche colpetto sul collo bruno, erano gli unici rumori che li accompagnavano. Le mosche, però, se ne erano andate da un pezzo, constatò Parwa, guardandosi intorno trattenendo il respiro. 

Taddeus la chiamò, era diventato nervoso e i suoi occhi saettavano qua e là. Aveva qualcosa in comune con il suo ronzino, pensò Parwa incitando la vecchia Belle a rimettersi al passo.

– Stai diventando come Amèth. Se non ti calmi, lui diventerà ancora più agitato – disse la ragazza allungando il collo per indicare il cavallo: aveva le narici schiumose e il respiro pesante.

– Non mi piace qui – rispose lui e sputò per terra. 

Parwa sapeva che stata una pessima idea prendere quella via, ma ormai ed tardi per i ripensamenti. Di certo una discussione su chi aveva scelto quale strada e perché non sarebbe stata utile in quel momento. Non si sentiva al sicuro lì, in balia di quelle ombre. Spronò Belle nuovamente la quale riprese a camminare con il suo passo pesante.

– Muoviamoci, allora – disse infine portando istintivamente la mano alla fodera della sua giubba, dove conservava il suo coltello da caccia. 

I gelati

Nella Terra dei Ghiacci vive Bhyo, un simpatico pinguino che abita in un igloo insieme a mamma e papà.

Una mattina egli si alzò di buon ora, il sole stava per sorgere e tingeva di rosa l’orizzonte. Il paesaggio glaciale attorno a lui invece era blu, sarebbe diventato bianco non appena i raggi solari lo avessero illuminato. Il signor Kruntzer, una vecchia foca con due grossi baffi che parevano inamidati, lo salutò con un cenno poco prima di gettarsi a pesca in una pozza d’acqua. Bhyo ammirava molto l’abilità del signor Kruntzer come pescatore, spesso donava alla mamma alcuni pesciolini pronti da cucinare. 

L’aria era pungente e Bhyo iniziò a camminare più in fretta per scaldarsi un po’. Era da un po’ di tempo che gli girava in testa un’idea. Voleva andare al mare, ma non al mare glaciale al quale era abituato: voleva andare alla spiaggia. Se la immaginava già dai racconti che aveva udito e dai libri che gli aveva letto la mamma prima di andare a dormire: quella meravigliosa e scottante distesa di sabbia lambita da dolci onde azzurrine, acqua tiepida, conchiglie da raccogliere, castelli sabbiosi da modellare e gelati freschi e dolci da gustare. 

Camminando e solleticandosi l’immaginazione con questi pensieri, Bhyo giunse al Porticciolo dell’Ovest, un paesino sul mare dove i suoi genitori si recavano ogni tanto per spedire e ricevere posta, comperare attrezzi utili o semplicemente per fare due chiacchiere con qualche faccia nuova. La pasticceria Biancorsi era appena aperta e il profumo dei loro muffin ai mirtilli invitava a fare una sosta da loro. Ma il giovane pinguino aveva solo tre soldi in tasca e non voleva spenderli subito per accontentare il suo palato. 

Poco dopo Bhyo si rese conto che aveva fatto bene a risparmiare le poche monete. Stava camminando sul molo dei mercanti e quella mattina c’erano solo due barche attraccate. La prima era la “Soledad” e commerciava in oggetti di vario tipo: utensili per caccia e pesca, articoli per la casa, coperte e qualche raro pezzo di arredamento; il comandante era un gabbiano e spesso affidava l’imbarcazione al suo fidato timoniere mentre la precedeva volando, tracciando traiettorie concentriche. 

-Accettate passeggeri, capitano?- chiese il giovane pinguino al gabbiano che sovrintendeva alle ultime incombenze prima della partenza. 

-Certo, ragazzo. Ma ti costerà tre soldi e un po’ di fatica. Dove sei diretto?

-I tre soldi ce li ho e la fatica non mi spaventa. Sono diretto a sud, sto cercando una spiaggia, di quelle gialle e sabbiose bagnate dal mare tiepido.

-Uhm,- rimuginò il gabbiano aggrottando la fronte -Non saprei se la “Soledad” fa al caso tuo, noi siamo diretti all’Isola Verde, ma lì non ho mai visto una spiaggia gialla. Laggiù il mare è grigio o verde scuro e batte sulle alte scogliere. Se vuoi un consiglio, chiedi a quell’altra barca prima di scegliere che direzione prendere. Può essere che la loro rotta ti sia più propizia.

Dopo aver parlato il capitano della “Soledad” spiccò il volo verso l’albero maestro e si appollaiò lassù dove aveva una miglior visuale del porto.

Bhyo seguì il suo consiglio e si diresse verso l’altra barca sulla cui bianca fiancata spiccava il nome di “Marion”, scritto in arzigogolate lettere blu.

-Noi commerciamo in cacao, caffè e banane- esordì il capitano, una vecchia scimmia che indossava un berretto a cilindro. -Ma ti avverto, pinguino,- continuò lei grattandosi un’orecchia -La “Marion” non raggiunge direttamente quei posti, non è adatta a un viaggio del genere. Noi ci fermiamo al porto di Ballington, sull’Isola del Vento e attendiamo il carico dalla nave di mia sorella: la “Carioca”. Per quattro soldi ti posso portare fin lì. Che ne dici?

Bhyo ci pensò su. Quattro soldi non li aveva. Però l’idea di andare all’Isola del Vento lo intrigava, e se non fosse riuscito a farsi caricare sulla “Carioca” pazienza, qualche cosa avrebbe potuto fare comunque, il porto di Ballington era sempre gremito di navi da ogni dove, non mancavano certo le opportunità. Quindi contrattò per un passaggio alla cifra di due soldi, avrebbe pescato e aiutato nelle cucine. Il capitano accettò dopo aver tergiversato quanto si addiceva ad una degna contrattazione. Gli tese la mano e se la strinsero, il suo palmo era duro come cuoio. 

In serata la “Marion” partì, si diressero verso il sole morente su acque placide tinte dai colori del tramonto.

Bhyo esplorò la cucina sotto lo sguardo severo del signor Hoffton, il cuoco, un tricheco molto ordinato ed esigente. Il tragitto verso il porto di Ballington durò quattro giorni durante i quali il giovane pinguino pelò più patate che in tutta la sua vita. 

Una mattina limpida e ventosa il capitano scandagliò l’orizzonte col cannocchiale. -A sera giungeremo al porto, signori!- gioì. Era stata una traversata senza imprevisti.

Quella sera infatti cenarono a terra alla Locanda del Pescatore, il signor Hoffton si dimostrò un abile  narratore ipnotizzando Bhyo e gli altri dell’equipaggio con i suoi aneddoti marinareschi. 

-Si chiamano gelati,- disse il cuoco alla fine dell’ennesima storia -devi assaggiarli, ragazzo, non appena andrai alla spiaggia-, continuò rivolgendosi a Bhyo.

-Ne ho sentito parlare…- rispose lui timidamente -Sono dolci, vero?

-Altroché!-, si inserì il capitano -Sono qualcosa di magnifico: cremosi, zuccherini, freddi come neve!

Bhyo quella notte sognò di trovarsi su una spiaggia deserta, con il rumore della risacca a rompere il silenzio e la sabbia gialla e abbagliante. Poi vide un pesce sdraiato sul bagnasciuga che si beava della carezza delle onde.

 -Ciao-, disse il pinguino quando fu abbastanza vicino. -Ciao a te-, rispose il pesce scrutandolo con i suoi occhi grandi e curiosi.

-Dove siamo?

-Alla spiaggia.

-Si, ma… Dove?- incalzò Bhyo mentre l’acqua marina gli lambiva i piedi.

-Eh, bella domanda…- rispose il pesce rigirandosi su un fianco. -Io posso dirti solo una cosa: il mio nome.

-Ah, sì? Dimmelo allora!

-Mi chiamo Scér.

-Io sono Bhyo. Piacere di conoscerti.

Il giovane pinguino si svegliò di soprassalto mordendosi la lingua. Si trovava in una cuccetta a bordo della “Marion”. Fuori iniziava ad albeggiare, il vento sibilava tra gli interstizi del boccaporto. La nave mercantile avrebbe salpato quel giorno stesso, si tornava indietro, verso la Terra dei Ghiacci. Ma Bhyo non poteva dirsi ancora soddisfatto del suo peregrinare, sapeva che una bella spiaggia dorata lo attendeva da qualche parte e forse anche una nuova amica… O era frutto della sua immaginazione? Non lo sapeva, ma era certo di voler approfondire la sua ricerca. 

A colazione i marinai avevano lo sguardo fremente di chi vuol ripartire, bevevano il loro caffellatte e vi inzuppavano il pane febbrilmente, quasi non vedessero l’ora di mettersi al lavoro e salpare. 

-Partiremo questa sera stessa- proclamò il capitano prima di dirigersi in plancia a fumare un sigaro in solitaria.

-Che farai, pinguino?- chiese il signor Hoffton, il cuoco, che si era decisamente ammorbidito nei suoi confronti.

-Io non ho ancora terminato il mio viaggio- rispose Bhyo mentre pescava il pane ammollato con un cucchiaio, -credo che cercherò un altro passaggio per mare.

-La “Carioca” è ripartita ieri sera…- rispose Hoffton quasi parlando tra sé.

-Lo so,- assentì Bhyo -ma non c’era posto per me.

-Potresti chiedere agli EE. Loro in questa stagione di solito si dirigono ai Tropici. Potresti trovare quello che cerchi andando insieme a loro.

-E chi sono gli EE? Dove posso trovarli?

-Se vai al museo di Storia Naturale li troverai, stanno sempre lì a confabulare sulle loro scoperte…- concluse Hoffton sparecchiando la tavola dalle tazze rimaste. 

Il museo di Storia Naturale aveva una facciata austera con due grosse colonne dai capitelli ionici sormontate da un frontone triangolare dal timpano spoglio, incorniciato da motivi geometrici. Il colore del palazzo andava dal grigio al verde scuro e al marrone, in certi punti più chiaro perché battuto dal sole e dalle intemperie. 

Un pinguino completamente bianco e con una lunga barba che gli arrivava fino ai piedi ne uscì fischiettando e così facendo prese a spazzare via le foglie secche dalla scalinata in pietra che conduceva all’ingresso. Procedeva con metodo, perfettamente a tempo con il motivetto che intonava. Giunse in breve proprio di fronte a Bhyo e gli disse, come ripetendo una formula abituale: -Il museo è chiuso adesso. Apriamo tra un’ora.

Bhyo lo seguì con lo sguardo ancora un po’ prima di rispondere. -Non è il museo a interessarmi, signore, ma gli EE. Mi è stato detto che potevo trovarli qui. Sbaglio?

Il pinguino bianco si fermò di colpo a quelle parole. Poi si girò verso il giovane e lo squadrò da capo a piedi.

-É così, quindi? Cerchi gli EE, ragazzo?

-Sissignore.

-Beh… Si dà il caso che tu li abbia trovati. Io sono il professor Barbagio, fondatore e direttore degli Eterni Entomologi. 

Il giovane pinguino non si immaginava di certo che la sigla “EE” significasse “Eterni Entomologi”. Dopo essersi presentato con il professore e aver spiegato i suoi propositi fu introdotto agli altri membri del gruppo: un’orso polare che si toglieva gli occhiali da sole solamente per dormire o per fare un montaggio video e una vipera esperta di riprese in soggettiva.

-Io sono Bunny, lui è Gardner- disse la vipera con un marcato accento del sud. 

-E così sarai il nostro nuovo cambusiere!- disse Gardner l’orso dando una pacca sulle spalle del giovane pinguino facendolo caracollare in avanti.

-La nostra passione sono gli insetti,- continuò Bunny strisciando su una teca contenente centinaia di farfalle – ma non ci piace mangiarli, quindi niente cavallette fritte o cimici nella minestra per favore!

-D’accordo,- balbettò Bhyo domandandosi nello stesso tempo se i tre avrebbero, se non apprezzato, almeno tollerato la sua cucina.

Quella sera stessa era in programma la partenza degli EE, direzione: i Tropici.

La barca sulla quale viaggiavano era minuscola e aveva l’aria di non essere molto solida. 

-Stai tranquillo, ragazzo!- esordì il professor Barbagio dopo aver notato l’espressione sgomenta di Bhyo -Sono circa trent’anni che questa bellezza passa le revisioni a pieni voti!

-Benvenuto a bordo della “Ernestina”- lo accolse la vipera strisciando sul timone.

Bhyo trovò posto nella cabina a fianco della cucina e approntò il suo giaciglio: un’amaca che si adattava perfettamente al rollio della barca.  

Nell’oscurità della notte il giovane pinguino salì sul ponte della Ernestina. L’Isola del Vento e le luci di Ballington stavano scomparendo inghiottite dall’orizzonte. L’imbarcazione fendeva sibilando le onde e la sua scia si dileguava placidamente a poppa. 

Il professor Barbagio stava al timone, con una pinna teneva ferma la sua barba bianca che il vento faceva svolazzare infastidendolo. Aveva lo sguardo ardente dell’esploratore, ma dava anche segno di stanchezza, per come ogni tanto il capo gli ciondolava in avanti. 

-Posso farle un caffè professore?- disse Bhyo a bassa voce come per paura di disturbarlo. 

-Eh? Come?- farfugliò il vecchio pinguino guardandosi intorno smarrito, – Ah, sei tu, ragazzo…- continuò dopo averlo adocchiato – Come rifiutare una sì nobile bevanda?

Poco dopo Bhyo gli stava porgendo una tazza fumante, il professore la afferrò lasciando il timone al giovane.

-Ecco, bravo,- lo incoraggiò dopo una bella sorsata di caffè -mantieniti su questa rotta, devi avere quella stella laggiù sempre in quella posizione, la vedi?

-Sì, la vedo!- rispose Bhyo colmo di eccitazione, era così felice di guidare una barca!

Era quasi l’alba quando Gardner diede loro il cambio, Bhyo gli preparò un panino e una tazza di tè e poi si diresse nella sua cabina abbandonandosi ad un sonno profondo.

Era quasi mezzogiorno quando Bunny svegliò malamente il giovane pinguino gettandogli in faccia dell’acqua gelata urlando a squarciagola: -Sveglia, cambusiere! È quasi ora di pranzo e non vedo niente bollire in pentola!

Bhyo cadde dall’amaca con un tonfo e si affrettò a raggiungere la cucina: un bugigattolo ricoperto di uno strato di unto e sporcizia con il lavandino sepolto sotto una pila chilometrica di piatti sporchi. 

-Devi sapere che quando Gardner ha fame non c’è nulla che possa mettersi fra lui e il cibo… Questo deve essere il risultato di un suo spuntino in mattinata…- disse la vipera trattenendo a stento un risolino e lasciando poco dopo il pinguino a fare i conti con quel disastro. 

Il cielo non era più sereno come durante la notte, si udivano tuoni in lontananza e il rollio della barca si fece via via più impetuoso. Cumuli di nubi color cenere si scontravano ad alta quota sospinte da forti correnti.

Nessuno volle pranzare e per Bhyo fu un sollievo perché aveva giusto finito di lustrare gli ultimi piatti. Il professor Barbagio era assorto nei suoi pensieri e prendeva appunti su un taccuino osservando il cielo con occhi inquieti. Gardner e Bunny erano stranamente silenziosi. Bhyo temeva che sarebbe giunta presto una tremenda tempesta. E così fu. 

Una violenta folata di vento carica di gocce di pioggia investì la prua della nave scuotendola fino alla punta dell’albero maestro. Bhyo osservò con terrore le nubi crescere e avanzare verso di loro, parevano massi giganteschi che rotolavano giù da un pendio invisibile squarciando il silenzio con il fragore dei tuoni.

Fulmini violetti illuminavano le forme di quei cirri inquieti, il vento aumentava sibilando; l’Ernestina fendeva le onde mentre Gardner manovrava il timone con movimenti decisi. Bunny invece era avvinghiata al pannello degli strumenti. -Professore!- gridò la vipera, -Il barometro precipita!

-Ne vedremo delle belle…-, rispose il professore con uno sguardo spiritato, mentre lottava con le correnti per indossare una cerata gialla svolazzante.

Bhyo non aveva un ricordo preciso di come si svolsero gli eventi, ricordava che la paura gli aveva stretto più e più volte la bocca dello stomaco; inoltre ricordava gli incoraggiamenti di Gardner e le frasi brucianti del professore. Ad un certo punto una pignatta da stufato gli era piombata in testa e le cose si erano fatte confuse e i rumori più attutiti. Riaffiorarono nitidamente le parole di Bunny: “È svenuto”, aveva detto.

Il giovane pinguino sollevò debolmente una pinna e si toccò la fronte. Doveva essere proprio lì che la pignatta lo aveva colpito. L’entità del bernoccolo lo impressionò e lo tranquillizzò nello stesso momento: se sentiva dolore significava che era ancora vivo! Era sopravvissuto alla tempesta!

Si rese conto di stare strizzando gli occhi. Percepiva della luce dall’altra parte, una luce forte e calda. Sollevò le palpebre con cautela. 

Il cielo era così azzurro da ferire la vista. Il mare era liscio come una tavola e alcuni gabbiani svolazzavano intorno all’imbarcazione. 

-Buongiorno, Bhyo!- disse una voce che il pinguino riconobbe subito come quella di Gardner, -Mi stavo giusto chiedendo se si poteva avere un bel caffè fumante…- continuò l’orso polare con una voce allegra, ma segnata dalla stanchezza. Egli era ancora al timone, vi si era legato saldamente con una fune per non perdere il controllo della nave. 

Il pinguino si districò in un’accozzaglia di pentole e stoviglie ed estrasse la caffettiera da quel caos.

Bunny dormiva ancora avvinghiata al barometro, il professore russava sonoramente sdraiato al centro del ponte. 

Il pinguino e l’orso bianco fecero colazione in silenzio guardando l’orizzonte e i riflessi dorati del sole sul mare. -Anche io provengo dalla Terra dei Ghiacci-, esordì Gardner appoggiando sul ponte la tazza ormai vuota. -Dove vivevi laggiù?- chiese Bhyo, che per un momento fu colto da una forte nostalgia di casa; -Sono nato a Skyrgar, quell’isoletta di fronte al Golfo delle Foche- rispose l’orso, -È un bel posto dove vivere, ma io sognavo di girare il mondo- continuò, -Ogni tanto andavo con mio padre al Porticciolo dell’Ovest a scambiare merci e mi fermavo delle ore a guardare le navi, fantasticavo sulle avventure per mare.

-Anche io ogni tanto vado lì con i miei!- disse Bhyo rinfrancato da quel comune ricordo.

-Allora avrai assaggiato i muffin ai mirtilli della pasticceria Biancorsi!- lo incalzò Gardner leccandosi i baffi.

-Altroché! Sono i muffin migliori che…

-Ehi, voi due!-, la voce di Bunny li fece girare di scatto.

-È un’isola, o sbaglio, quella che vedo laggiù?

Di lì a poco il professore aveva già srotolato le mappe e le scrutava aiutandosi con un compasso per stabilire di che isola si trattasse.

-Dev’essere Mariflor o, al limite, Pescadora. Certo che quella tempesta ci ha spediti parecchio in là…- sentenziò Barbagio grattandosi la barba candida. 

-Ad ogni modo,- continuò -non ho mai avuto occasione di fare una seria ricerca sugli insetti-foglia che abitano le foreste interne di questa fascia climatica… Potrebbe essere l’occasione giusta, non credete?

L’equipaggio pareva d’accordo, inoltre gran parte delle provviste era stata dispersa durante la tempesta. Non avevano molte alternative se non dirigersi verso la misteriosa isoletta.

Man mano che si avvicinavano lo sguardo del professore si incupiva. Non riconosceva le rosee scogliere di Pescadora né il ridente porticciolo di Mariflor, con le sue bianche casette adornate dalle splendide bouganville. 

-Qualcosa non torna…-, mormorò Barbagio scrutando il monte che si ergeva tra la fitta vegetazione.

-Mi pare di vedere una scia di fumo provenire da dietro il monte- disse Bunny aguzzando la vista.

-Quel fumo non proviene da dietro il monte, bensì dal monte!- esclamò il professore, -Si tratta di un vulcano!

L’Ernestina avanzava lentamente e più si avvicinava alla misteriosa isola, più l’inquietudine del suo equipaggio aumentava. -Non riesco proprio a capacitarmi,- continuava a ripetere Barbagio sfogliando febbrilmente le sue carte nautiche, -non dovrebbe esserci alcuna isola in questa posizione.

Bhyo non riusciva a staccare lo sguardo dal costante sbuffo di fumo che si innalzava dal cratere del vulcano. Ben presto gettarono l’ancora in un piccolo golfo protetto dalle correnti più forti. 

-Io rimango a bordo, ragazzi- proruppe Gardner -non sono di alcuna utilità se non recupero un po’ di energie.

-D’accordo, Gard- rispose il professore mentre approntava la sua attrezzatura di base e la caricava sulla scialuppa, -riposati, ma stai all’erta, questo posto è un’incognita, potrebbe essere tranquillo o molto pericoloso, non possiamo ancora stabilirlo.

-E la presenza del vulcano non è affatto rassicurante…- incalzò Bunny fissandolo con i suoi grandi occhi gialli.

-Bhyo, tu occupati del pranzo, saremo di ritorno al tramonto- concluse Barbagio lisciandosi per l’ennesima volta la lunga barba.

Avevano salutato la bianca sagoma di Gardner da un pezzo, camminavano ormai da qualche ora immersi in una fittissima vegetazione tropicale, l’umidità dell’aria era alta e il suolo scivoloso non ammetteva alcuna distrazione nel calcolare dove poggiare i piedi. Bunny si era posizionata sul cappello da esploratore del professore e da lì effettuava alcune riprese. -Documentare ogni cosa è fondamentale nel nostro lavoro,- aveva detto a Bhyo mentre estraeva una minuscola videocamera dalla sua sacca personale.

-C’è qualcosa di strano, nell’aria…- aveva detto d’un tratto il giovane pinguino con una voce un po’ più acuta del solito. -Il silenzio- sussurrò Barbagio scostando una liana e voltandosi a guardarlo con i suoi occhi vispi -è il silenzio a essere così assordante, ragazzo.

-Perbacco!- aveva esclamato d’un tratto il professore facendo sobbalzare i due compagni.

-Che succede, doc?- disse Bunny mentre zoomava su una corteccia satura di formiche rosse e nere. 

-Mi pare proprio di avere visto… O diamine, ma certo che l’ho visto! Un esemplare di scarabeo tricornuto! Ci pensate!?

-Ne è sicuro professore?- rispose la vipera febbrilmente tentando di orientare la videocamera nella sua direzione.

-Un cosa?- esordì timidamente Bhyo che tentava di afferrare la ragione del loro improvviso entusiasmo. 

Mentre i tre avanzavano nella foresta Gardner stava a bordo dell’Ernestina. Mangiava un panino con burro e acciughe, uno dei suoi preferiti, sfogliando distrattamente un catalogo di attrezzi per la manutenzione di motori nautici. -Quel fumo…- disse tra sé spostando lo sguardo verso l’estremità del vulcano – …Non mi piace per niente.

-Ehi! Ehi, tu!

Una voce che pareva provenire dal mare lo fece sobbalzare. Gardner si aggirò sul ponte con aria circospetta, poco dopo si fermò grattandosi il capo. -Mah…- sbuffò, -Dev’essere la stanchezza che mi fa immaginare strani suoni…

-Ehi! Dico a te, orso bianco!

A queste ultime parole Gardner per poco non per perse l’equilibrio per lo stupore. 

-Sono qui! Ehi, sono qui a poppa!

L’orso caracollò fino in coda all’imbarcazione. Dall’acqua spuntava la lucida testa di un pesce dai grandi occhi. 

-Oh, finalmente!- disse il pesce roteando le pupille -Pensavo che avrei dovuto mettermi a tirar sassi per attirare la tua attenzione, non sei un orso molto sveglio, eh?

-Ma che pesciolino impertinente!- rispose Gardner un po’ ferito nell’orgoglio -Vorrei vedere te dopo una nottata passata al timone durante una tempesta pazzesca!

-Avete attraversato la tempesta con questa qui?- incalzò il pesce alludendo all’Ernestina.

-Certo, e siamo ancora tutti qui per raccontarlo!- concluse l’orso raddrizzando la schiena e battendosi forte sul petto.

-Tutti? Ci sono altri passeggeri?- chiese il pesce strabuzzando gli occhi.

-Al momento sono a terra, sono andati in esplorazione dell’isola- rispose lui un po’ seccato dalla curiosità di quel pesce.

-Allora sono in grave pericolo- disse il pesce senza mutare espressione -e anche tu, orso. Dovete andarvene.

-Professore, sicuro che non vuole il suo panino? Posso mangiarlo io?- chiese Bhyo mentre riponeva i resti del pranzo nello zaino, -Mangialo pure, ragazzo… Io non ho affatto fame- rispose il vecchio pinguino senza smettere di scribacchiare sul suo taccuino. -Tranquillo, fa sempre così mentre lavora- disse Bunny dando un colpetto di incoraggiamento a Bhyo con la coda; -il fuoco sacro- proseguì la vipera con sguardo assorto, poi sorrise -è così che chiama il suo ardore scientifico. 

Il mezzodì era passato da un pezzo e i tre si trovavano su uno sperone roccioso che concedeva una buona visuale sull’isola. Avevano attraversato il bosco con non poca fatica e raccolto molto materiale video interessante. Bunny non vedeva l’ora di incominciare a montare un bel documentario sullo scarabeo tricornuto, aveva un’aria allegra e di tanto in tanto Bhyo la sentì sibilare qualche vecchia canzone dondolando la punta della coda. 

-Ehi, guardate!- proruppe il giovane pinguino con voce squillante, -l’Ernestina è proprio laggiù!

Bunny si issò su un albero per vedere meglio. -Ma…- iniziò lei titubante -…Che strano,- fece eco Bhyo – non dovremmo averla alle spalle?

Avevano appena attirato l’attenzione del professore che abbandonò momentaneamente i suoi appunti quando un’enorme boato li fece trasalire. 

Si guardarono atterriti l’un l’altro, poi il loro sguardo si diresse al vulcano. La terrà tremò.

-Svelti! Dobbiamo fuggire di qui!- gridò una voce alle loro spalle.

I tre si voltarono simultaneamente e per un attimo pensarono di essere impazziti: un pesce, in piedi sulle sue pinne posteriori, li stava chiamando e li esortava a seguirlo.

-Devo essere ammattito…- mormorò Barbagio strabuzzando gli occhi.

-Professore, Bunny! Seguiamo quel pesce, io la conosco!- esplose Bhyo prendendo in mano la situazione.

I due non fecero in tempo a replicare che un altro violento scossone sismico per poco non li buttò a terra. Poco dopo stavano seguendo il pesce che li guidava con passo sicuro per una scorciatoia attraverso la foresta, avrebbero presto raggiunto l’Ernestina, dovevano andarsene da quell’isola e in fretta!

Bhyo correva, inciampava, si rialzava e caracollava spezzando rami e rametti; di tanto in tanto si voltava per assicurarsi che il professore e Bunny (che stava aggrappata al suo cappello) non rimanessero troppo indietro, ma la paura aveva reso Barbagio più giovane di qualche decennio, almeno momentaneamente. 

Il giovane pinguino era assediato da un turbinio di pensieri, aveva riconosciuto quel pesce, o meglio, quella pesciolina: l’aveva incontrata in sogno e si ricordava anche il suo nome, Scér. 

-Eccoci! Ancora pochi metri!- gridò Scér appena giunsero in una spiaggia così bella da togliere il fiato. 

Gardner si sbracciava dal ponte dell’Ernestina, il motore rombava pronto a filarsela via da lì. 

Appena furono tutti a bordo la barca partì al massimo della potenza; Bhyo stava a poppa, appoggiato al parapetto, il vento gli portò via il cappello e lo depositò proprio sulla loro scia. Prima che potesse aprir bocca la pesciolina si lanciò in mare per andarlo a recuperare. 

-Scér!- urlò Bhyo preoccupato -Scér!

Con un guizzo, Scér ritornò a bordo, porse a Bhyo il suo cappello e gli rivolse un gran sorriso. Il pinguino sorrise a sua volta e la ringraziò, per il cappello, per averli salvati, per tutto insomma. La pesciolina lo guardava con quegli occhi grandi e lui si sentì in imbarazzo. 

-Bhyo,- disse infine -Ci siamo incontrati in sogno.

-Sì- rispose lui -siamo amici, vero?

-Eccome!- rise Scér.

-Ehi, ragazzi!- 

Gardner arrivò col suo solito passo pesante, teneva in mano due coni gelato. -Tenete, mangiateli prima che si sciolgano! Pensate che erano nascosti in fondo al freezer, credevo fossero finiti e invece…

Bhyo e Scér si sedettero sul ponte facendo dondolare le pinne oltre la murata. Il vulcano dell’isola che avevano appena lasciato era lontano ormai. Il professor Barbagio controllava i dati del suo sismografo e intanto si grattava la barba. -È stato un falso allarme, probabilmente…- mormorò – Ma, meglio essere andati via… poteva finire molto, molto peggio.

-Ehi, sta nevicando?- proruppe la vipera guardando dei fiocchi cinerini che fluttuavano intorno alla barca.

-No, cara Bunny,- disse il professore – quella è cenere uscita dal cratere del vulcano, si sta pian piano depositando. Non c’è che dire, siamo stati fortunati. Soprattutto grazie a quello strano pesce- terminò alludendo a Scér che con una piroetta si rituffò in mare. Poi riemerse e indicò verso il sole che stava per tramontare.

-Proseguite in quella direzione e domani sarete a Pescadora. Arriverci Bhyo, torna a trovarmi!

-Certo Scér, lo farò!

-Ciao a tutti, amici!

Gli Eterni Entomologi e il giovane pinguino navigarono ancora e presto giunsero alla Terra dei Ghiacci, dove egli fece ritorno da mamma e papà.